Corriere del Mezzogiorno (Campania)
CHE NULLA TORNI ALLA NORMALITÀ
C’è una frase che rimbalza di bocca in bocca in questi giorni desolati: speriamo che tutto torni presto alla normalità. Dirlo ci rassicura perché così mastichiamo parole capaci di proiettarci in un futuro che però, alla resa dei conti, altro non è che la fotocopia del passato. Insomma, come capita spesso, sogniamo di tornare al passato per cancellare un presente gravido di paura. Ebbene, non per fare il bastian contrario a ogni costo, io invece spero che nulla torni alla normalità d’un tempo, se per normalità intendiamo l’intrico di fattori che ci ha scaraventato in questo buio. Al di là dei devastanti effetti pandemici , il Coronavirus ha messo a nudo le innumerevoli falle del nostro sistema di vita: eravamo a bordo di un’auto lanciata a piena velocità e, d’improvviso, siamo stati costretti a frenare. E mentre la corsa continua per inerzia di moto, non sappiamo ancora se ci schianteremo contro un muro o riusciremo a salvarci.
Nel frattempo, molti ripetono: in ogni caso, nulla sarà più come prima. Magari avessero ragione… Io temo il contrario. E cioè che, una volta superata l’emergenza, tutto ricominci da capo. Prendiamo, ad esempio, il comparto sanità: negli ultimi dieci anni qualunque governo, di qualunque colore, ha sottratto fondi alla tutela pubblica della salute. Secondo l’ultimo rapporto della Fondazione Gimbe (un ente di ricerca no profit specializzato in questo tipo di ricerca), sono stati tagliati ben 37 miliardi a fronte di una crescita del fabbisogno nazionale di 8,8 miliardi. A questo si aggiunga l’esodo pensionistico del personale medico e paramedico, accresciuto ulteriormente da Quota 100, che non è stato mai rimpiazzato con un adeguato piano di assunzioni. Oggi, con la solita iniezione di retorica, descriviamo come «eroi civili» gli uomini e le donne che combattono il Coronavirus nei presidi ospedalieri o i medici di base che costituiscono il primo filtro contro il dilagare dell’epidemia. Ma fino a ieri cosa abbiamo fatto per loro? Nulla o quasi. Anzi, qui li abbiamo aggrediti, picchiati e insultati mentre erano in servizio.
Addirittura, nei giorni scorsi, c’è stato chi gli ha sputato addosso soltanto perché non gradiva stare in fila ad aspettare che gli facessero il tampone. Siamo stati capaci di lesionare quella che qualcuno ha definito «la più grande opera pubblica mai costruita in Italia» e se oggi non vaghiamo tra le sue macerie lo dobbiamo esclusivamente allo straordinario senso di responsabilità civile e all’alto tasso di professionalità dei nostri «camici bianchi», tutti, che hanno prima impedito lo sgretolamento della struttura e ora garantiscono l’assistenza in prima linea a costo di terribili sacrifici. Dunque, mi chiedo: è a questa normalità che vogliamo tornare?
Secondo capitolo: la politica. Mettiamo da parte lo scenario nazionale e concentriamoci su quello locale. Anche qui azzardo una provocazione: non esisteva amministratore migliore di Vincenzo De Luca per affrontare questa situazione. Potrà piacere o meno il suo stile di governo — e questo giornale, forse più di chiunque altro, non gli ha risparmiato critiche in tal senso — ma una cosa mi sembra evidente: durante un’emergenza è necessaria una figura catalizzatrice in grado di sintetizzare tutti gli apporti tecnici, trasformandoli poi in decisioni forti e univoche destinate a lenire il senso di sconforto e insicurezza che, fatalmente, attanaglia la popolazione. E De Luca, su questo fronte, non ha rivali. Fin dal primo momento s’è caricato sulle spalle il peso della minaccia incombente e, oltrepassando i recinti di partito, ha stretto un’alleanza con Fontana e Zaia, i due governatori simbolo del Nord leghista, nel chiedere misure il più possibile restrittive, adottandone alcune perfino prima del governo nazionale. Inoltre ha predisposto un piano d’assistenza sanitaria che finora ha funzionato a dovere: reggerà poi se il numero dei casi dovesse aumentare esponenzialmente nei prossimi giorni? Il presidente ne è convinto ma bisognerà attendere l’eventuale (speriamo di no) prova dei fatti. Certamente, quando è insorto il virus, una delle grandi paure era legata alla fragile consistenza delle strutture sanitarie meridionali e, almeno per il momento, De Luca pare averla ridimensionata. Come se non bastasse, poi, proprio dalla Campania è giunto un filo di speranza nell’approccio terapeutico, grazie alla sperimentazione di un farmaco contro l’artrite reumatoide che sembra dare risultati soddisfacenti nei casi più gravi di Coronavirus. Vogliamo davvero tornare a una normalità cucita su pregiudizi e stereotipi?
Terzo capitolo: la tecnologia. Diciamo la verità: esistono condanne peggiori di quindici giorni trascorsi a casa. Gli unici che hanno ragione ad essere affranti sono gli anziani, in particolare quelli soli: a loro deve andare tutto il nostro sostegno civile e istituzionale. L’isolamento, tuttavia, ci sta dando modo di scoprire le mille risorse offerte dalle nuove tecnologie per migliorare la nostra vita: le piattaforme on line capaci di attenuare gli effetti della chiusura di scuole e atenei; una maggiore consapevolezza del ruolo fondamentale che, anche in una società iper-connessa, riveste l’informazione quando è affidata ai professionisti del settore; l’incremento del telelavoro con i conseguenti benefici per la vivibilità (futura) delle nostre città e l’equilibrio degli individui (fatti salvi i fannulloni). Stiamo riscoprendo valori come la lentezza e la distanza, i social hanno ripreso il giusto peso nelle nostre giornate. Vi domando: è meglio parlarsi come proviamo a fare oggi, sia pur a un metro di distanza, o tornare alla normalità delle conversazioni in chat?
Quarto capitolo: l’economia. Sarà molto dura, inutile illudersi. Qualcuno addirittura sussurra che il peggio deve ancora venire, alludendo a un Paese post-emergenza devastato dalla crisi, a cominciare proprio dal Mezzogiorno. I primi drammatici effetti del collasso sono già sotto i nostri occhi. Ma il grande psicoanalista Carl Gustav Jung affermava che la nevrosi è la cura. Cosa significa? Che se saremo capaci di guardarci dentro e di capire i gravi errori di politica economica compiuti nella distribuzione
delle risorse pubbliche (vedi alle voci sanità, ricerca e istruzione), nell’assenza di un indirizzo strategico complessivo, nella balbettante innovazione dei modi di produzione (pensiamo, tra l’altro, proprio allo smart working), nella scarsa incidenza del potere statale al cospetto delle big company, negli eccessi di accondiscendenza al rigorismo europeo, se sapremo insomma fare i conti con la maledetta normalità che oggi invochiamo quasi religiosamente, tutto questo dolore non l’avremo attraversato invano. Può apparire stravagante anche il solo pensiero ma sarebbe meglio cominciare a rifletterci su: abitiamo un’indicibile tragedia e, allo stesso tempo, una magnifica opportunità. La nostra vita sta per cambiare davvero dopo tanta normalità. Se sapremo afferrare l’occasione, allora sì che «andrà tutto bene». E potremo tornare ad abbracciarci. Senza farci contagiare dal passato.