Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il messaggio che arriva dall’epidemia

- di Fortunato Cerlino

Il cancello del centro di meditazion­e alle spalle del bosco di Capodimont­e è aperto, come sempre. Rosario si toglie le scarpe prima di entrare nell’aranceto. È un gesto che fa in maniera istintiva, nessuna regola scritta, nessun divieto lo impone. La luce tenue dei primi raggi di sole del mattino filtra tra i rami e le foglie creando delicati giochi di luce. Quello è uno dei pochi posti dove Rosario viene accolto come un essere umano, e non come un barbone. A lui piace andarci quasi ogni mattina. Lo percepisce come un luogo sacro, dove trovare la forza e la chiarezza per affrontare il nuovo giorno. Il maestro del centro è seduto, come sempre all’alba, sotto un arancio già in fiore. Ha gli occhi socchiusi, il viso disteso. Una ciotola quasi colma è posta ai piedi dell’albero sotto il quale è in meditazion­e. Quello delle gocce di rugiada che scivolano dalle foglie nella ciotola, è l’unico suono che si sente tutto intorno. Rosario, facendo meno rumore possibile, si siede poco distante dal maestro, incrocia le gambe e chiude gli occhi. Gli basta respirare profondame­nte pochi secondi per trovare la pace e sentire una quiete che difficilme­nte riesce a trovare per le confuse e intricate vie della città.

«Che c’è? Ti sento preoccupat­o». La voce del maestro lo sorprende.

«Lo sono».

«E perché?».

«Faccio mali pensieri». “Quali?”

Lo sguardo di Rosario torna ad adombrarsi.

«Se te lo dico pensi che pure stammatina sto ubriaco, oppure mi pigli per uno che dice strunzate». «Di che si tratta?».

«Di questo virus che sta colpenno a tutti quanti». Un sorriso appena percettibi­le si disegna sul volto del maestro. Rosario si passa una mano tra i capelli unti cercando di raccoglier­e i pensieri. «Però nun voglio essere frainteso. Io tengo na grande pena e porto rispetto per le persone che stanno morendo e per quelli che stanno cumbattenn­e contro a sta malatia...». «Però?». Incoraggia­to dal maestro, Rosario si sforza di trovare le parole giuste.

«Io penso che ogni malatia tiene una sua saggezza».

«In che senso?».

«’A malatia è na risposta. Nun credo che è casuale. Penso che è na specie di difesa della natura, na reazione a na provocazio­ne. Nei tempi antichi si diceva che le epidemie erano generate dall’ira ‘e Dio. Io mo nun songo nu primitivo, ma credo che in quelle parole ci sta na certa verità. Io nun penso che ‘o Padreterno è na specie ‘e vecchio con la barba assettato ‘ncoppa a nu trono. Dio nun tiene corpo, o meglio, tutto quello che ci circonda è ‘o corpo ‘e Dio, pure noi. Mi sto spiegando?” Il maestro fa cenno di sì col capo. “Ecco. Io songo convinto che stu virus, che è nu virus infame, maligno, nello stesso tempo tiene nu messaggio per tutti quanti noi». «E quale è?».

Rosario si strofina ripetutame­nte il volto con le mani sporche come se cercasse di svegliarsi da un lungo sonno.

«Di preciso non l’ho capito. Però se vedo quello che sta provocanne un’idea me la sono fatta. Soltanto fino a pochi mesi fa l’ommo se sentiva onnipotent­e, invincibbi­le. Tutti quanti pensavamo che cu tutta la tecnologgi­a e la scienza che tenimmo, eravamo addivienta­ti i padroni do munno e del destino. Avimme fondato banche e borse mondiali, accumulato certezze e fabbricato armi assai potenti. Ci sentivamo forti insomma. Poi è arrivato st’organismo microscopi­co, che nemmeno se vede a occhio nudo, e ci ha messo a tutti quanti in ginocchio. Sta pagliuzzel­la è stata capace di fermare ‘o munno intero. Ecco, se uno osserva sti cose, allora capisce che sta malatia ci sta portando almeno due messaggi. ‘O primmo è che ‘o munno si poteva fermare. ‘O secondo è che tutto quello che pensavamo fosse necessario è diventa secondario in pochi giorni. Questo vo’ dicere che ‘a storia si può pure cambiare nel giro di un paio di settimane. Mi sono spiegato quello che voglio dire?».

«Sì».

«Io vivo per strada. ‘A società la vedo già da un punto di vista privileggi­ato pecché nun tengo niente e niente voglio tene’. Vedo che la gente intorno a me sta cominciand­o ad accettare ‘o fatto che tenimme ‘a capa piene di fantasie. Niente è overamente indispensa­bbile. Ieri notte, nel rione dove dormo, ci stava nu silenzio irreale. Mi pareva che potevo sentire ‘o suono dê stelle. Per una volta ‘o burdello della città era sparito. Stu fatto che tutti quanti sono costretti a fermarsi, a rallentare, può essere na cosa buona. Le persone stanno ‘a casa, tengono chiu tiempo per parlarsi, per guardarsi di nuovo ‘nfaccia, per sentire ‘e voce dinto ‘o scuro. Stu virus ci sta facenno turna’ a essere umani.” Il maestro chiude di nuovo gli occhi. “Nun dici niente? Songo na bestia a pensa’ accussì? Vuol dire che non tengo compassion­e per le vittime?».

«No».

«E allora?».

Il maestro sospira profondame­nte. «Puoi farmi un favore Rosario?». «Dimmi».

«La ciotola che raccoglie le gocce di rugiada è colma. Puoi cambiarla?».

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