Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Barbarella non è sola Un vagito risveglia la città
Tra le radici di una quercia in una città assolata, si ritrova quell’esserino tra le mani
Barbarella è l’ultima donna rimasta in piedi, che veglia sulla città dalla casa in cima al Paradisiello. Perché agosto ritornava con i suoi bollori, come da duemilacinquecento anni a quella parte. E Napoli si svuotava. Nella stinta, erosa, affogata, liquefatta via Foria non c’era nessuno.
È il Decamerone rimodulato ai tempi del Coronavirus. Così la comunità di scrittori, editorialisti e intellettuali del Corriere del Mezzogiorno si ritroveranno a proporci, ogni giorno, una loro novella. Perché Covid-19 ha cambiato, lo si voglia o no, i nostri stili di vita. E in certi frangenti un racconto aiuta a far passare la nottata. Riprendiamo lo schema di Boccaccio, terza giornata: una cosa a lungo desiderata e infine ottenuta o ritrovata.
Agosto ritornava con i suoi bollori, come da duemilacinquecento anni a quella parte. E Napoli si svuotava. Nella stinta, erosa, affogata, liquefatta via Foria non c’era nessuno. Identico a come quando c’era stata la pestilenza. Le strade prendevano le sembianze di tratturi, le percorrevi fischiettando come un vecchio contadino in attesa di vedere passare il convoglio di carri del re, che poco prima dell’acquedotto staccavano la cavezza ai cavalli e li sostituivano con i buoi: per salire su verso Capodimonte, alla ricerca di fresco o dell’illusione di un mondo diverso.
Ma ora non ci sono torrenti, fontane, non c’è nemmeno un acquaiolo nella città deserta: i banconi di marmo restano a cuocersi al sole, con i rimasugli di agrumi che creano una patina insensibile agli insetti. Un’auto passa forse in lontananza, smarrita, incapace di rendersi conto dell’apocalisse estiva. Dalla fine dell’epidemia, i napoletani hanno deciso di fare festa per dimenticare il Coronavirus: e sono tornati a replicare le estati degli anni Novanta, quando Napoli si svuotava e le autostrade brulicavano di lamiere, in fila per correre verso Ischitella, Mondragone, Massa Lubrense, Scario, Santa Maria di Castellabate con vettovaglie, frittate di maccheroni, bottiglie di Gragnano, caffè nei termos e Pino Daniele a tutto volume.
Barbarella è l’ultima donna rimasta in piedi, che veglia sulla città dalla casa in cima al Paradisiello. Il brusio di Tele Akery e il luccicore sfrigolante della vecchia televisione con il tubo catodico sono i soli emblemi di vita. Ogni tanto dà un colpetto con il palmo della mano per acconciare la ricezione. «Fammi pigliare il carrellino, che devo andare a comprare la frutta e un cartone di Lete… e pure il mangiare pe’ te» dice al gatto, scansandolo con una pedata e ricevendone in cambio i miagolii di protesta: poi esce di casa, si tira dietro la porta e si copre il naso. Non più paura della pestilenza, ma dell’amianto che, come una maledizione, aleggia a cinque metri da terra e si prepara a colpire dalle grondaie, dai tubi di scolo, dalle tettoie scartavetrate come sotto colpi di bombe. I gradini della lunga scalinata sono centoquarantatré, a metà strada c’è la madonnina, che lei non si ferma mai a guardare per non cadere nella tentazione delle false speranze. «Uffà, ’sti scale…!» dice a se stessa, chiedendo a Dio se un giorno potrà non provare fatica nello scenderle o nel salirle. Sono trentasette primavere che si spezza i muscoli: non possiede altro che quella casetta minuscola in cima a quella scalinata. Sua madre la difese coi denti dal pignoramento, prima di andarsene per sempre. È tutto quello che le resta di lei. Eppure, dopo trentasette primavere, le gambe di Barbarella ancora non si sono abituate alla fatica del saliscendi.
«Buongiorno, Barbarè… niente Cronaca
vera oggi, mi dispiace…» la saluta l’edicolante di Sant’Eframo. Lei gli risponde con un cenno della mano, un po’ contrariata, e prosegue fino al Corallo. Si sciacqua la fronte con la pompa del benzinaio, una goduria, poi compra qualcosa al mercato di San Giuanniello, passa davanti alla distesa bianca dell’Ospedale dei Poveri e solo quando il guardiano non la squadra, penetra nei giardini botanici per trovare fresco. Con quelle fitte e quel peso, è l’unica medicina che conosca. C’è stato qualcuno nella sua vita, poco meno di un anno prima, che le ha lasciato un piccolo Pulcinella nella pancia: «ci vuole ancora tempo… devi mangiare frutta, camminare, bere acqua e tenere le gambe sollevate. Leggiti un giornale e statti in casa, ma smettila di salire quelle scale… sennò le vene varicose ti si schiattano!», le ripete il dottore Gualtiero dell’ospedale Pellegrini. Come se fosse facile, per chi vive da sola ed è costretta a farsi la spesa giorno per giorno. Le due lire della pensione di reversibilità le bastano a malapena. E poi, quali gambe sollevate? Quel giorno non c’è neanche Cronaca Vera dal giornalaio. Così, tutto quello che può fare nell’orto botanico è sedersi sotto l’enorme ippocastano e respirare quell’aria spessa, vulcanica, salina, confidando nel Ponentino che a tratti soffia dal mare. Non ci sono rumori, non ci sono le signore dei quartieri bene coi passeggini, c’è solo lei e quel doloretto che le spunta dal pizzo della natica e risale fin sulla spina dorsale. «La sciatica… mannaggia a lei… e a quelle maledette scale» ripete come una litania biblica.
Non sa bene cosa significhi, sa solo che quello è il nome della malattia, anzi, il nome del dolore e ci dovrà convivere ancora a lungo. Barbarella si aggiusta, sposta il peso, ma allo stomaco l’afferra la sensazione orribile di starsi scavando un vuoto da sola. C’è calore nel ventre ed è come se l’aria le fosse appena stata risucchiata dai polmoni. Si tocca lentamente con la mano sotto la veste e tra le dita imporporate e tremanti sembra restino imprigionate fragole. «Signore Iddio, proprio mo’…?» si chiede. Prova a chiamare qualcuno, ma non c’è risposta. Si tira su a fatica, strascica il passo come fosse l’ultima amazzone nel giorno del giudizio e si trascina all’entrata: è tardi, il cancello è sbarrato e il guardiano non ha saputo trattenersi dal saltare il consueto controllo. Barbarella chiama ancora, ma non c’è nessuno che l’ascolta, nemmeno la propria stessa eco: via Foria è il silenzio di se stessa, di bar sbarrati, di farmacie spente, di lattine di birra e buste di patatine arrotolate dal vento.
La fitta si fa più forte, Barbarella trova una quercia cava e ne usa le radici sporgenti per sedersi: il dolore non è nulla in confronto alla paura. Usa saggiamente l’acqua in bottiglia per ripulirsi, cerca di ricordare la puntata di E.R. – Medici in prima linea, ma le tornano in mente solo sussulti, invocazioni, imprecazioni, grida. Da lì si intravede il Paradisiello, casa sua, a pochi metri, dove la madonnina a metà strada starà ridendo. Qualcosa le dice che non ce la farà, che non salirà più quelle scale. È scampata a quella maledetta epidemia, solo per ritrovarsi da sola nel cuore perduto di un’estate infinita. Eppure, prima che possa accorgersene, il dolore smette di pulsare e si fa costante, sottile, un ronzio, un suono, un’ultima pulsione che diventa un grido selvaggio, il primo grido del mondo, la nascita della città: si ritrova all’improvviso quell’esserino tra le mani che vagisce di gioia, gridando tutta la rabbia e la solitudine e la sconfitta e la voglia di andare avanti e l’ostinazione di una città abbandonata da Dio e dagli uomini. È sera, quando Barbarella ritorna al Paradisiello. L’estate è finita, la città sembra riaccendersi di luci e voci e odori come per una spinta carsica del proprio orgoglio. Il chiasso riempie di vita, trabocca, impetuoso, nei vicoli. I gradini sono tanti, sono sempre gli stessi, sono troppi. Ma salirli, anche con il peso raddoppiato, questa volta non è faticoso. È la prima volta, da trentasette primavere. E non è nemmeno più sola.