Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il contagio
Tra metafora e letteratura L’ondata globale della pandemia dimostra quanto siano legate scienza e storia della sofferenza
Epoi, all’improvviso, veniamo restituiti alle ragioni imperiose e profondissime del Corpo. Alle parole proprie che pertengono alle sue affezioni e patologie e che ritroviamo trasposte, spesso anestetizzate e rovesciate, negli ambiti più vari della semantica della cultura: a non dir altro «virus» informatico, il «malware» che infetta i file nei computer a nostra insaputa moltiplicandoli, o una parola delle più frequenti nel discorso contemporaneo, «contaminazione», adoperata nell’accezione virtuosa.
Sono processi normali del viaggio dei significati, lungo le direttive della metafora, della somiglianza, dai campi primari della vita concreta dell’uomo a quelli nuovi da formare linguisticamente e concettualmente. In questo caso, c’è la fenomenologia sterminata della malattia, la «Grande Imperfezione» (Lichtenberg) che fonda e costituisce l’umano. «La malattia – ha osservato Jacques Le Goff – appartiene alla Storia», innanzi tutto perché è un’idea, un découpage astratto dentro una realtà empirica complessa, e poi perché le malattie sono mortali e intercettano o determinano i saperi legati alle strutture sociali, all’immaginario, alle mentalità.
Lo verifichiamo oggi, dinanzi all’ondata strutturale della pandemia, fino a che punto storia del progresso scientifico e storia della sofferenza siano intrecciate. La ricerca va avanti nella dialettica tenace col morbo, la parola competente del medico riconforta, perché chiarisce, mentre l’orrore del contagio, insieme con le nuove forme di dicerie che prendono il posto di superstizioni e procedure magiche, innesca angosce arcaiche. Ce lo ricorda la letteratura, sia quando racconta delle grandi epidemie che a partire dall’Iliade indicano nel contagio il segno della collera divina, per una colpa collettiva, sia quando la malattia stessa diventa legge del racconto, funzione
odifica o determina il corso degli eventi. C’è naturalmente il Decameron, testo fondativo del realismo occidentale, dove il raccontarsi storie l’un l’altro sospende e differisce il pericolo. L’immaginazione narrativa è salvifica, è propriamente farmaco, in quanto si dispiega in una comunità che la discute e la fa propria.
E c’è il gran libro dell’Italia moderna, la Bibbia civile e insieme sacra dei Promessi sposi, dove l’epidemia storica del 1630 viene attratta nella visione provvidenzialistica, ma non pacificante del Manzoni. Non è questo il luogo e il tempo per una carrellata tematica. Basta rinviare al libro molto bello e bene congegnato, opera di una letterata e di un epidemiologo, pubblicato dal Centro di Medicina & Storia di Firenze e dedicato alla epidemia più sinistra ed emblematizzata, la peste, dall’ etimo incerto e denso – ciò che perde, ma anche soffio, soffiata letale – (Costanza e Marco Geddes da Filicaia, Peste. Fra letteratura e scienza, 2015).
Del resto, il discorso sui temi portanti di una fisiologia della mente, quali malattia/ salute diagnosi/cura, è stato sempre molto presente nella cultura napoletana, così ricca di teoria e di scienza. All’indomani dell’Unità il fervido dibattito fra filosofi e medici, fra idealisti e positivisti – nel contesto urgente della situazione sanitaria a Napoli descritta dal Ranieri, dalla Serao, dal di Giacomo e che avrebbe richiesto il soqquadro urbanistico del Risanamento – verteva appunto sulla Malattia: accidente o natura? Domanda essenziale. Ci sono momenti decisivi nella storia di una comunità in cui l’evento del contagio imperscrutabile interroga, riconduce l’individuo a se stesso , oltre le sovrastrutture e i rumori della cosiddetta contemporaneità. Solo un esempio, qui, infine, tratto dal secondo Novecento e di grande valore letterario. Alla fine della seconda guerra mondiale, nell’Italia post-fascista e ancora, per dire così, in convalescenza, Ennio Flaiano scriveva un romanzo ad alto tasso simbolico: Tempo di uccidere, ambientato in Etiopia, dove lo scrittore aveva partecipato alla guerra coloniale nel 1935. Il protagonista, un tenente scettico e superficiale, dopo una notte d’amore e di morte con l’indigena Mariam, che uccide per sbaglio, si accorge o crede di avere contratto la lebbra. Ed ecco che la tediosa insignificanza del reale che connota la prima parte del romanzo, cede ad un movimento opposto di totale investimento del senso. Innescato dal sospetto del contagio, incombe ovunque un mistero da decifrare, ogni cosa reclama un significato, che immancabilmente rinvia alla Colpa. Lettore appassionato della Montagna incantata, di Thomas Mann, il romanzo del sanatoriomondo, Flaiano componeva così l’anamnesi dell’errore di una generazione. E i temini di salute e malattia apparivano rovesciati: nel personaggio dell’amico negazionista, la salute è conformismo sociale, feroce freddezza borghese del si salvi chi può. La malattia invece apre uno scandalo nell’esistente, si fa compassione, indagine sull’amore, richiesta di una comune verità.
La malattia apre uno scandalo nell’esistente, si fa compassione, indagine sull’amore, richiesta di una comune verità