Corriere del Mezzogiorno (Campania)
L’incontro con l’artista fu una sorta di ossimoro, agitato come l’inizio di ogni rapporto vero
m’ero pronunciato io. Però dicendo: «Per quanto riguarda il signore che scrive su questo giornale, è certamente una persona intelligente e colta, ma del mio spettacolo non ha capito niente».
Mi posi, allora, il problema seguente: volendo dare ascolto a Flaiano, che una volta (sempre con un ossimoro) disse di lui: «È un Bene cattivo», quali erano il «buono» e il «cattivo» di Carmelo? E lui sciolse l’enigma così: «Io non sono né buono né cattivo. Sono, rifacendomi a Cioran, un demiurgo perverso. E sono uno gnostico. Gli gnostici praticavano l’autoflagellazione, cercavano il vuoto, l’informe, l’inorganico. E in me, come in loro, non c’è, dunque, né il bene né il male, c’è solo il fastidio del corpo. Io, come gli gnostici, maltratto il corpo in favore dello spirito. Voglio, insomma, cancellare il corpo. E di qui la mia iconoclastia, il mio rifiuto dell’immagine e della parola e, in breve, la mia tensione verso l’inaudito».
Ma — cavalcando l’ossimoro estremo — Carmelo Bene trasformò la «perversione», «il vuoto», «l’informe», «l’inorganico» e «il fastidio del corpo» in quella che considero una delle più belle serate della mia vita. E il teatro, stavolta, non c’entrò proprio per niente, se non in via del tutto indiretta e, più esattamente, come semplice antefatto.
A partire dal 9 novembre del ’96 Carmelo stette a Napoli per registrare, presso il centro di produzione della Rai di via Marconi, «Macbeth Horror Suite» e due ore di «(s)concerto» su Leopardi, Campana e Dante. E a mano a mano che s’avvicinava il giorno del suo arrivo a Napoli, prese a tempestarmi con telefonate sempre più pressanti e ravvicinate: «Io arriverò il giorno 8. E quella sera devi venire assolutamente a cena da me, all’Excelsior. E devi portare anche tua moglie, mi raccomando».
Passi per l’invito a cena, ma la storia dell’invito esteso a mia moglie mi suonava piuttosto strana, dal momento che lui, Carmelo, a stento sapeva ch’ero sposato e, comunque, mia moglie non l’aveva mai vista. In ogni caso, il 7 mi fa l’ennesima telefonata: «Allora, io arriverò da Roma in serata, diciamo verso le otto. Però voi, tu e tua moglie (non ti dimenticare di portarla!), potete venire all’Excelsior anche prima, diciamo verso le sei. Vi sedete nel bar dell’albergo, dove volete voi, e prendete tutto quello che volete: Martini, whisky, noccioline, vodka… prendete pure qualche toast e qualche sandwich, non fate complimenti. Li ho già avvertiti, in albergo».
Naturalmente, io e mia moglie arrivammo all’Excelsior soltanto verso le sette e mezzo, e l’abbuffata strepitosa proposta da Carmelo ci guardammo bene dall’accostarla. Lui, però, arriva trafelato e scatena nel bar un autentico terremoto: «Vi avevo ordinato di mettervi a disposizione: dove sono i Martini, i whisky, le noccioline, la vodka, i toast e i sandwich?». Letteralmente travolti e tramortiti, il barista e i camerieri riuscivano soltanto a balbettare, come un rosario mortificato: «Veramente, i signori ci hanno chiesto appena un bicchiere d’acqua…». Mentre mia moglie, dandomi impercettibilmente di gomito, mormorava in un soffio: «Questo è pazzo, sei sicuro che la serata non finisce male?».
Non ne ero sicuro, in effetti. Almeno nel senso che mi dicevo: se questo si mette a tirare in ballo gli gnostici, la volontà, la rappresentazione e il saggio che Deleuze ha scritto su di lui, va a finire che mangeremo soltanto massimi sistemi e la cena risulterà — almeno per mia moglie, che non è abituata alle (del resto) rare prelibatezze dell’Assenza – piuttosto pesante. Ma invece, nella suite che occupava al primo piano, Carmelo fu – durante tutta la cena – di un’amabilità e di un garbo assolutamente imprevedibili. Elegantissimo in una giacca da sera luccicante e con un fantasmagorico foulard al posto della cravatta, condusse una conversazione tanto raffinata quanto lieve, nemmeno il più piccolo accenno agli gnostici, a Schopenhauer e a Deleuze.
Poi, l’uscita di scena. Nel novembre del 2000 Carmelo Bene presentò all’Argentina di Roma il suo ultimo spettacolo, «In-vulnerabilità d’Achille»: quarantacinque, al massimo cinquanta minuti di febbre e di latèbre, di tranelli e di sfracelli, di canti rosi e di conti resi, con l’Attore Inattivo (e Inattuale) che — in equilibrio instabile su un panchetto dietro il microfono — assumeva,
In alto, Carmelo Bene in una foto di scena Qui sopra, Enrico Fiore, autore dell’articolo che pubblichiamo, con Carmelo Bene
mentre evocava i versi di Omero, Stazio e von Kleist, i movimenti disarticolati di una marionetta, e tentava inutilmente (ma con sfolgorante sarcasmo) di rimontare uno dei tanti manichini le cui teste, tronchi, braccia, mani, gambe e piedi — bianchi come ossa calcificate — gli s’affollavano intorno confusi con frammenti di colonne e capitelli classici.
Una donna, sporgendosi dal palco, gridava: «Senza di te il teatro non c’è». E al termine accompagnai nei camerini un ragazzo che voleva un autografo da Bene. Ma lui, Carmelo, mi disse: «Scriviglielo tu. Devi fare così: prendi un pennarello, poi prendi un programma di sala (o un foglio di carta qualsiasi, va bene lo stesso) e scrivi col pennarello Carmelo Bene». Voleva durare, Carmelo: «reincarnarsi» in chi, da lui prescelto, aveva ricevuto il mandato di farsi cannibale del suo «corpo». Lui, che a sette anni s’era ritrovato a sentirsi la Madonna, adesso appariva a me nelle vesti di quel Cristo che, prima di ricevere l’affronto d’essere trasformato in un «cattolico», aveva raccomandato ai discepoli, spezzando il pane e distribuendoglielo: «Fate questo in memoria di me».