Corriere del Mezzogiorno (Campania)
«Sui social le foto di chi esce I nuovi delatori sono i cecchini con smartphone»
La scrittrice, Valeria Parrella, esterna il disagio per la complessa «sindrome» da caccia all’untore che spinge a fotografare i presunti trasgressori
NAPOLI Si è detto: il Coronavirus ci sta cambiando. Può farlo in meglio o in peggio. Valeria Parrella ha scritto un tweet in cui racconta di una mamma che porta per mano un figlio disabile nel vuoto della città vuota - lo fa per motivi terapeutici - viene fotografata e indicata su Facebook come “chi ha trasgredito”. Lo smartphone si trasforma in arma da cecchini, conclude la scrittrice finalista al premio Strega con Almarina (Einaudi).
Valeria Parrella, quanto è forte questo rischio?
«Lo racconta bene Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo. Sia chiaro: non sto parlando dei provvedimenti di separazione sociale che sono l’unica strada percorribile e tutti dobbiamo seguirli: sto parlando della “paura” che è una dominante formidabile per i totalitarismi. Ecco che la classe dirigente deve mostrarsi sicura di sé, ma anche rassicurante e non dare mai possibilità al cittadino di sostituirsi nel controllo e nella delazione. Quell’episodio mi è sembrato gravissimo perché in malafede. Faccio un esempio: se io penso che un mio concittadino stia commettendo una irregolarità, posso sporgere denuncia. Mettiamo che canti alle tre di notte: posso chiamare il 115. Il “cecchino” invece appena gli hanno fatto notare che stava violando le leggi sulla privacy ha tolto la foto da fb».
Delatori del passato, del presente e speriamo non del futuro. In greco sicofanti. Cosa scatta nelle loro teste?
«Non lo so, ci vorrebbe uno psicologo. Anzi: sono certa che ci vorrà un grande aiuto psicologico per tutti. Approfitto per sottolineare che la Federico II ha aperto uno sportello di counseling a cui accedere via telefono o via mail. È un segnale bello e forte. Dunque non lo so. So cosa mi ricorda la delazione: una canzoncina che cantavano da bambina a me, atea figlia di atei: “chi fa la spia non è figlio di Maria, non è figlio di Gesù, quando muore va laggiù”».
La quarantena, il contagio riportano al centro il tema fondante del rapporto con l’altro da noi. E che ora rischia di essere l’untore.
«La cosa più interessante anche per la letteratura, infatti, sarà studiare il nuovo confine che è il corpo dell’essere umano, micromondo passibile di connettersi con l’altro con due mezzi: la tecnologia e la voce. A proposito dei confini voglio raccontare una cosa romantica: i detenuti chiusi nelle loro celle, di notte, parlano attraverso le finestre, scrivendosi lettere di fuoco con gli accendini».
Pur di parlare scriviamo nell’aria. Gli psicologi per superare questo momento suggeriscono di prendersi cura dell’altro.
«È molto terapeutico. Per la verità conosco persone estremamente generose e gentili che lo fanno costantemente: frequento un gruppo di adulti e ragazzi legati da esperienze di disabilità dove l’attenzione è l’essenza di tutto. Vivo esperienze comunitarie qui a Bagnoli di grande sollecitudine, quindi generalizzo e le dico che gli italiani sono pieni di cura. Quello che manca è la sua messa a sistema, una educazione sentimentale che sia proprio presente e arrivi dove l’indole personale non ce la fa e dove le sacche di sofferenza sono più grandi».
Come sta vivendo l’isolamento dal punto di vista fattuale e interiore?
«Mi dispiace per mio figlio enormemente. Mi dispiace perché non sono in grado di farglielo comprendere fino in fondo e non lo comprendo davvero neppure io. Lo vivo, lo accetto, lo seguo in modo ligio - io poi sono legalista, quindi davvero interiorizzo le regole - ma non le “comprendo”, non sono parte di me: è come se la mia mente pretendesse di sentirle come una eccezione e quindi non le sa spiegare. So solo aspettare, su questo ho una certa dimestichezza per vari motivi: perché ho vissuto anni fa 88 giorni di terapia intensiva accanto a una incubatrice, e perché faccio un lavoro che per venire bene richiede di star concentrati su un foglio per due anni, senza feedback».
Come ne usciremo?
«Non lo so, ma poi ci troveremo come le star a bere del whisky al Roxy bar».
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La classe dirigente deve mostrarsi sicura di sé, rassicurante e non consentire al cittadino di sostituirsi nella denuncia
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In tanti si occupano degli altri ma dove non arriva l’individuo serve un’educazione sentimentale che arrivi dove serve