Corriere del Mezzogiorno (Campania)
NON C’È PIANTO PER I MORTI
Èbuio profondo. Né s’intravedono spiragli che diradino l’eclisse nel quale siamo immersi. L’Italia, 60 milioni d’abitanti, piange un numero di morti superiore a quello della Cina, che di abitanti ne ha 1,38 miliardi. Guardo angosciato immagini di colonne di carri militari che trasportano verso altri siti le bare che eccedono la ricettività di cimiteri lombardi. Chissà quando sarà dato ai familiari piangere su una tomba, raccogliersi in preghiera intorno ad un’urna. Anche negli ospedali di Napoli e regione impietose norme governano l’addio alle vittime del morbo. Non si consente al congiunto cogliere l’estremo respiro d’un proprio caro. Neppur accedere alle cappelle mortuarie. La paura impone una disumanità inconcepibile in qualsiasi altra circostanza. A me laico, il rispetto per la fede altrui fa ben comprendere quanto lo strazio di famiglie cattoliche, o d’ogni altro credo, sia aggravato dal sapere d’un proprio caro privato degli ultimi sacramenti della propria religione. Vietata perfino la benedicente aspersione alle bare nelle sale mortuarie. Pur in ospedali con stabile presenza di cappellani. Ricambiamo con ammirata gratitudine la dedizione fino all’eroismo dei sanitari che curano i corpi. Stupisce, laicamente, che altrettale dedizione non sia concesso esercitare ai pastori delle anime. «Non sonavano campane, e non si piangeva persona», annotava Agnolo Di Tura, cronista della peste che spopolò l’Italia nel 1348. Ma allora i morti superavano metà della popolazione. Vorrei, com’è scritto su striscioni esposti a balconi e vetrine, nutrire la certezza che «andrà tutto bene». In Italia, qui da noi, a Napoli, nel Sud. Ma più che rassicurante affermazione, la percepisco come invocazione dolente. Un esorcismo che non dirada incertezze. L’epidemia cesserà, dicono i saggi. Seppur in tempi diversi, a seconda delle aree colpite. Dichiarano di esserne ormai fuori in Cina, dov’era nata e poi diffusa al mondo, in Italia più prestamente e crudelmente. Non potrà non esser vinta anche da noi, ma troppi già sono stati i lutti: immenso è il cimitero disteso tra il Po e le Alpi.
Ed ancor altri si prevede che dovremo piangerne, per iniziali titubanze ed errori nelle pubbliche misure cautelative, per incoscienti anarchismi di cittadini. Tra cui, purtroppo, eccellono napoletani e meridionali. Si ritornerà a popolare le strade, gli uffici, le fabbriche, i cantieri. Una rinnovata normalità. Già, ma quanto diversa da quella cui eravamo avvezzi?
Che non del tutto ci piaceva né appagava. Anzi, in tanti avremmo voluto migliorarla, quella che fino a due mesi fa era la «nostra» normalità, nel nostro Paese, nel mondo intero. Quante ne abbiamo vissute, in Italia, a Napoli, nel Sud di esperienze del «giorno dopo»? Il «dopo» una catastrofe. Ritrovo un’intervista che il 2 dicembre 1980, nella settimana seguita al terremoto che aveva sconquassato il Sud appenninico e lambito Napoli, Francesco Compagna rilasciò a Lietta Tornabuoni inviata da La Stampa: «Un terremoto — diceva — non è una palingenesi e neppure una paralisi; è un formidabile acceleratore di processi di cambiamento». All’uomo di studi e di governo appariva naturale che tali processi avrebbero dovuto intraprendere percorsi positivi. Pur senza illusioni, era un idealista. Ma i cambiamenti, col senno di oggi, sappiamo che risultarono di segno negativo: la ricostruzione non fu, come egli proponeva, occasione di rimodellamento urbanistico e sviluppo a scala regionale e metropolitana. L’erogazione di finanziamenti fu intercettata da speculazioni, ai cui margini cominciò a prosperare una camorra che sarebbe divenuta, come ben sappiamo, invasiva.
I dati su ciò che sta accadendo, ed allarmanti segnali di quanto potrà accadere già li abbiamo. Tornano alle loro case nei paesi costieri i marittimi sbarcati dalle navi da crociera ormai prive di passeggeri; dai mercantili divenuti inoperosi per il rallentamento degli scambi mondiali. Migliaia. Il maggior armatore europeo, il sorrentino Aponte, ha fermato i suoi 19 enormi transatlantici. Come lui tutte le maggiori compagnie concorrenti: 60mila marittimi a terra. Chiusi gli alberghi in Napoli, nelle isole, sulle costiere, nei luoghi dello sci. Lo shipping e il turismo erano diventati il paracadute economico di città e regioni falcidiate da progressive chiusure di fabbriche, pubbliche e private. In quanto tempo, con quali politiche e quali uomini, con quali sostegni europei e quanti fondi, si riuscirà ad evitare una palingenesi che si teme devastante?