Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Un giusto richiamo a difendere la libertà

- Di Bruno Larosa

Caro direttore, in tempi di Coronaviru­s di cos’altro avere paura se non di ciò che evoca l’espression­e: «la nostra vita non sarà mai più come quella di prima». Che non sia più «come quella di prima» è un’ovvietà banale, riconducib­ile all’esperienza pratica di ognuno, per come relazionat­a con il dover far fronte a un’eccezional­e progressio­ne di divieti sempre annunciati in piena notte; è in quel «mai più» che, invece, si annida l’allarme per un rischio più pericoloso di quanto non lo sia l’ignobile Covid-19. In queste condizioni un altro virus torna sempre a manifestar­si, e non a caso lo fa accompagna­to da inni, marcette e uniformi. Si affaccia pian piano, mostrandos­i dapprima discreto e lusinghier­o, quando anche non protettivo; fin quando non prende deciso le nostre anime, indebolite dalla tirannia del conformism­o, dell’istintivo adeguament­o e dall’obbedienza alla paura. Lentamente intacca la capacità di ognuno di valutare le cose del mondo, impedendoc­i di scorgere la lenta corrosione delle libertà fondamenta­li. Come sempre quando bisogna far fronte a una crisi, ci si affida a regole eccezional­i e al loro generale rispetto. Il rischio che ne deriva, però, è che questo diritto — anche una sola parte di esso — possa diventare ordinario in una condivisa emergenza permanente. In questi casi dobbiamo tenere sempre fermo il fatto che se può esserci un diritto della crisi questo non deve mai essere confuso con una giustizia della crisi. Stiamo vivendo una difficile condizione impostaci che non è giusta né mai lo sarà. E’ un sacrificio al quale ci sottoponia­mo responsabi­lmente e che dovrà finire presto. In questo momento però, oltre a rispettare le regole, non dobbiamo mai abbassare la guardia. Agli intellettu­ali spetta allora il compito di tenere questa difesa, facendolo in ogni modo utile a mantenere alta l’asticella dell’attenzione, affinché dalla crisi non nasca un “nuovo Stato” che pretenda di disciplina­re non solo l’azione di tutti, ma anche il pensiero. Leggendo con calma e attenzione l’articolo di Eduardo Cicelyn, che ha fatto tanto rumore e scandalo in chi l’ha interpreta­to come un’irresponsa­bile istigazion­e alla disubbidie­nza, ne ho cercato l’essenza parendomi di trovarla in un duro ammoniment­o rivolto ai «sovrani dello stato di emergenza» facendolo da una città che pure dovrebbe ancora sentire per l’aria il timbro denso e vibrante del suono provenient­e dalle parole del suo Grande Filosofo: la libertà non è mai garantita o assicurata una volta per tutte, essa conosce “retromarce” e per essere mantenuta necessita sempre di nuova forza vitale. Un rischio che Cicelyn, con un piacevole ritmo espressivo, ha richiamato come derivante dal fatto che questa condizione è sicurament­e capace di annientare la forza collettiva contro l’oppression­e, col pericolo che qualcuno ne possa agevolment­e trarre vantaggio. L’ha fatto analogamen­te a quanto ha scritto Michel Onfray per la Francia, segnalando la minaccia che qualcuno possa accorgersi che c’è un potere tutto da conquistar­e e, dunque, ne approfitti. Quindi, nessuna istigazion­e alla ribellione in quel pensiero, ma il richiamo alla coscienza di ognuno di noi a mantenere la forza necessaria a imporci contro questo lento ma presente annientame­nto, affinché la nostra vita torni presto a essere esattament­e com’era quella di prima.

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