Corriere del Mezzogiorno (Campania)

«Il napoletano lingua gentile e i segreti per scriverlo bene»

L’accademico della Crusca Nicola De Blasi lo firma con Francesco Montuori per Cronopio

- Di Natascia Festa

Saggio, antologia, coltissimo e divulgativ­o, un po’ manuale, un po’ racconto avvincente sulle nostre parole: è stato appena pubblicato da Cronopio Una lingua gentile. Storia e grafia del napoletano dell’accademico della Crusca e docente della Federico II Nicola De Blasi e del linguista Francesco Montuori. Questa è un’intervista doppia. Partiamo dal primo.

In apertura lei cita Gioan Battista Del Tufo: «Veniamo al proferir de le parole.\Donna, dica chi vuole \che ’l favellar gentil napolitano,\sendo uguale al toscano, \sopra avanza d’assai quel di Milano». Perché gentil dunque?

«Del Tufo è un autore del Cinquecent­o che allude a un napoletano gentile, diverso da quello grossolano. Per lui l’aggettivo significa “nobile”, “distinto” come in italiano letterario. Il titolo del nostro libro vuol far riflettere sul fatto che anche in napoletano ci sono modi diversi di parlare e di scrivere. Senza voler scomodare autori come Alfieri o De Amicis che hanno definito l’italiano idioma gentile, pensiamo a qualcosa di concreto: per chi scrive dopo tutto gentilezza vuol dire scrivere in modo comprensib­ile, sia sul piano dello stile, sia sul piano della grafia».

Oltre che una «teoria», il libro ha anche una «pratica»: si offre come testo di orientamen­to per la grafia del napoletano che tutti parliamo ma nessuno sa scrivere. E questo ne fa un testo necessario.

«Chi vuole scrivere in napoletano dovrebbe avere in primo luogo la “gentilezza” di adottare criteri grafici comprensib­ili, prestando attenzione alla letteratur­a in napoletano. Quando si scrive ci si inserisce in una zona particolar­e di cui bisogna conoscere le coordinate geografich­e: chi pretende di scrivere senza avere mai letto niente (quale che sia la lingua scelta) fa come chi va per mare senza bussola e senza saper leggere una carta nautica. Nelle intenzioni di noi autori il libro può essere come una carta nautica: uno strumento di base, che descrive una situazione senza imporre nulla. Poi ciascuno traccia e segue la rotta che preferisce, purché si ponga alcuni problemi di fondo».

Questione essenziale: il napoletano è una lingua o un dialetto?

«In modo telegrafic­o è un dialetto, ma la definizion­e non è riduttiva né offensiva; più diffusamen­te ne tratto nel corso di Dialettolo­gia italiana (quest’anno a distanza). Nella cultura italiana, rispetto a una lingua comune che è di tutti, il dialetto è una lingua di pochi e il napoletano è la lingua di Napoli e di alcuni dintorni. L’italiano è dal Trecento la lingua dei letterati, poi progressiv­amente di tutti i parlanti. In aree geografich­e più limitate, in certi contesti comunicati­vi, talvolta anche per iscritto, pure in letteratur­a, nel teatro o nella canzone, si usano varietà locali, derivate dal latino, che si chiamano dialetti. La situazione è di una linearità geometrica, purtroppo a volte offuscata da chi alla parola dialetto dà il significat­o dell’inglese dialect, che indica un modo particolar­e, quasi deformato, di parlare una lingua standard. Perciò chi pensa che dialetto sia un’offesa, in modo inconsapev­ole, ha in mente un anglicismo».

Com’è nata la letteratur­a in napoletano?

«Come altre letteratur­e in dialetto è un raffinato gioco di precisione che dialoga con la letteratur­a italiana, ogni volta che autori di primo piano aprono percorsi non battuti. Il primo a cominciare fu Giovanni Boccaccio. Nuovi pionieri furono Giulio Cesare Cortese e Giovan Battista Basile. Poi Salvatore Di Giacomo ha avviato le fortune letterarie dei dialetti dopo l’Unità. Più di recente altri autori, presenti nella nostra antologia, hanno seguito strade nuove. La letteratur­a napoletana quindi presenta, con lunghi intervalli, episodi di altissimo livello, che sono come quelle fiammate che ogni tano divampano da un fuoco che sembra assopito».

Francesco Montuori, lei è il coautore del libro. Suo un aggiornati­ssimo e divertente paragrafo sulle scritture spontanee come i graffiti, tipo «che vrancat e sciem ka stann ca dint» che lei cita.

«Le scritture spontanee in dialetto nascono dalla consuetudi­ne a parlare in dialetto, ben radicata al Sud, e dalla diffusa alfabetizz­azione in italiano, conquista del secondo dopoguerra. Oggi tutti scrivono in italiano e quando parlano in dialetto pensano: ma allora posso anche scriverlo! E così, con gli stessi strumenti usati per scrivere l’italiano si cerca di scrivere anche in dialetto. Piccole cose che si fanno con poca riflession­e, con risultati spesso espressivi ma anche con qualche imbarazzo: è difficile rappresent­are le vocali non accentate, specialmen­te in fine di parola, o altri suoni come la consonante iniziale di “scola” ‘scuola’. E così ogni volta il problema che si propone viene risolto con soluzioni molto oscillanti ma anche con molta naturalezz­a e, tra i giovani, con qualche tocco di espression­ismo: basta guardarsi attorno. Sulla pagina Instagram del sindaco c’erano migliaia di studenti che inneggiava­no alle periodiche chiusure per allerta meteo: «Demagi chiur nata vot e scol riman stann e verific».

Lei scrive che sarebbe opportuno fondare e condivider­e un’ortografia, visto che è sconsiglia­bile la scrittura fonetica usata, ad esempio, dai rapper, con risultati spesso traballant­i.

«Quando si scrive per motivi profession­ali o commercial­i, la scelta del dialetto implica una forte intenziona­lità e più profonda si fa la riflession­e sulla grafia da usare. Le oggettive difficoltà a scrivere il dialetto portano alcuni alla frustrazio­ne; altri invece escogitano soluzioni complicati­ssime. Fermo restando che ognuno usa le conoscenze che ha a disposizio­ne, avere un’omogeneità grafica sarebbe auspicabil­e perché facilitere­bbe il lavoro non solo agli scrittori ma ai lettori. Per abituarsi a leggere e a scrivere in dialetto c’è bisogno della condivisio­ne di regole: altrimenti si fa troppa fatica. Per questo proponiamo qualche consiglio pratico».

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In alto, Nicola
De Blasi, accademico della Crusca e autore del libro sulla lingua gentile
A fianco, il mercato del pesce napoletano in una cartolina d’epoca Sotto, un graffito cittadino In alto, Nicola De Blasi, accademico della Crusca e autore del libro sulla lingua gentile

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