Corriere del Mezzogiorno (Campania)
GLI «ANTICORPI» CONTRO LA CRISI
Non sappiamo quando usciremo dal tunnel del coronavirus, sappiamo con certezza che ciò non segnerà la fine dell’emergenza. Per ricomporre I cocci economici e sociali occorrerà anzitutto far tesoro degli «anticorpi» che sta inoculando. Si sostiene che messi alla frusta da uno stato di necessità, gli italiani diano il meglio di sé. Difatti il Paese nel complesso sta marciando unito per fronteggiare la minaccia di un agente subdolo, contro il quale a nulla valgono strumentalizzazioni o scaricabarile. Passata la «nuttata» della pandemia, ci ricorderemo delle virtù che stiamo dimostrando, oppure ricadremo nei consueti vizi di litigiosità, inconcludenza, interdizioni e quant’altro, che da un pezzo trascinano l’Italia nelle secche?
Oggi nei talkshow televisivi non tengono più banco le passerelle dei politici con le loro risse; anzi li vediamo in ascolto delle nuove star delle trasmissioni, gli esperti sanitari impegnati nella ricerca del bandolo per superare la crisi. L’interazione operativa tra scienziati e decisori ha posto alla ribalta la competenza. Parola abusata. Chi non la pretende dal proprio medico, avvocato o idraulico? Eppure, come collettività, ci siamo acconciati a cure da cavallo di demagogia e pressappochismo, in qualche modo perfino teorizzati (vedi 5 Stelle). Il coronavirus ci ha sbattuto in faccia il significato della competenza nell’azione politica e sociale: sintesi di professionalità distinte, volta a individuare priorità e mezzi per tradurle in concreto. Il contrario delle «bandierine» cui siamo avvezzi, piantate per accaparrare consenso, fonte di sprechi di risorse rivelatesi preziose nell’emergenza. Una per tutte, il depauperamento di quelle mediche in seguito ai pensionamenti anticipati ex quota 100. Ulteriore «anticorpo» è la disciplina con cui, pur tra deviazioni ancora troppo numerose, la cittadinanza si conforma alle restrizioni, ivi compresi noialtri meridionali, troppo spesso liquidati come antropologicamente» anarcoidi e individualisti.
Non a caso, il più citato episodio di elusione delle misure di sicurezza — la fuga da Milano verso il Sud — ha incontrato diffuse deplorazioni e contromisure nel territorio. «Noi italiani siamo fatti così!». Un refrain che riflette il compiaciuto attaccamento a cattive abitudini, insieme all’attitudine all’autodenigrazione dovuta a un complesso di inferiorità nei confronti degli «altri», in primis dei nostri «virtuosi» partner. I quali, spiazzati dall’attacco più tardivo del coronavirus, ora ci additano a esempio in quanto a misure di contrasto. Forse ci sorprende sentire «bisogna fare come gli italiani!». Tant’è: non siamo poi così male. Il recupero di una buona dose di orgoglio nazionale — per carità non scambiamolo per soprassalto di fascismo! — costituisce il più efficace «anticorpo» per risollevarci e fugare consolidati alibi.
Veniamo così al ruolo dello Stato, limitandoci all’aspetto più evidente nell’attuale dramma. La confusione di competenze con le regioni ha generato cortocircuiti, ritardi, incertezze e conflitti, laddove la situazione avrebbe richiesto un maggior centralismo nella filiera di comando. Che poi molte regioni — anche al Sud! — stiano reagendo in modo encomiabile alla situazione, non contraddice l’assunto. I divari di efficienza delle strutture sanitarie a livello territoriale dipendono in gran parte dalla scarsa incisività dello Stato nel correggerle, tramite l’imposizione — e l’implementazione — di standard di funzionalità più stringenti.
Non ne verremo fuori da soli. Dopo un’improvvida uscita, la Bce è scesa in campo, scongiurando una grave crisi finanziaria: di conseguenza, all’impennata è seguito il crollo dello spread, indicativo del costo del nostro indebitamento. Fuori dall’euro, saremmo stati travolti: un fatto che i denigratori nostrani della moneta unica farebbero bene a tenere a mente. Successivamente è stata disposta la sospensione del Patto di stabilità. Si tratta, però, dei primi passi, i più semplici. Il difficile sarà ricomporre i cocci in presenza di una pesante recessione. Tutti i governi del Continente dovranno spendere un mucchio di soldi. E qui stanno emergendo contrasti tra i paesi con una finanza pubblica più solida, intenzionati ad arroccarsi sulle vecchie regole (in buona sostanza a fare da sé), e altri, miranti a una condivisione dei rischi, limitata al contenimento degli effetti del coronavirus (in tal senso stiamo lavorando insieme alla Francia). Se tali contrasti non verranno ricomposti, si accentuerebbero i divari tra i paesi, mettendo a rischio la tenuta stessa dell’Unione. Il «mal comune» rende le nostre proposte più praticabili, purché sostenute con autorevolezza e competenza, ricercando le opportune alleanze. L’orgoglio nazionale si declina in questo. Altro che i proclami tonitruanti contro l’Europa, diffusori della sottile insidia del vittimismo, su cui alcune forze politiche hanno costruito parte delle proprie fortune elettorali.