Corriere del Mezzogiorno (Campania)
LE DOMANDE SU LISSNER E LE RISPOSTE NON DATE
Caro direttore, sono un datato professore di Latino e Greco, in questi giorni impegnato ancora di più nella lettura dei giornali. Mi dedico alla collazione, come avrebbe detto Petrarca, fra testi diversi. Ho apprezzato, sul caso Lissner, la sua scelta di mantenere la schiena dritta: l'orgoglio di un giornale è quello dei suoi lettori. Ho letto cronache e commenti in cui alle politiche culturali si sovrappongono plausi alla Napoli in trincea. Peccato che Lissner non abbia compreso che in trincea ci sono anche i giornalisti, che andrebbero considerati con equanime approccio.
Antonio Stoppa Napoli
LCaro professore, a ringrazio perché l’articolo nasceva da una motivazione semplice, dettata dalla trasparenza dovuta ai nostri lettori: spiegare i motivi che ci hanno indotto a rifiutare l’intervista a Stephan Lissner ventiquattr’ore dopo la pubblicazione, su Repubblica Napoli, di un colloquio fra il nuovo sovrintendente del San Carlo e Conchita Sannino. L’ho già scritto: la collega ha fatto bene il suo mestiere. Ho sollevato un’altra questione: può il dirigente di un teatro che si regge su fondi pubblici annunciare i suoi programmi a una sola testata? Gli altri cittadini, che con le loro tasse contribuiscono anch’essi a tenere in vita il Massimo, sono forse figli di un dio minore? Ebbene, a questi interrogativi, finora, non è stata data risposta. Ricordando che il nuovo capo della comunicazione del San Carlo è un collaboratore di Repubblica Napoli, potrei citare una frase di Leonardo Sciascia: «Io credo che le sole cose sicure in questo mondo sono le coincidenze». Ma ho fede, anzi sono convinto, che si tratti, appunto, d’una banale coincidenza. Il Corriere del Mezzogiorno, dal canto suo, ha una sola missione: informare senza fare sconti a nessuno, che si chiami De Luca, de Magistris o Lissner. Non ci stringiamo a coorte di qualcuno, ci interessa esclusivamente il giudizio dei lettori. Detto ciò, la sola notizia disponibile oggi è che Lissner ha messo in cassa integrazione 319 dipendenti. Il resto sono chiacchiere. Certo, non aveva altra scelta. Ma poteva risparmiarsi la tirata «populistica» sulla futura apertura del teatro a medici e infermieri che combattono il virus. Avrebbe fatto meglio a spiegare perché mentre mandava a casa i lavoratori, si dilettava a lanciare proclami roboanti sull’avvenire. Non è tempo di grandeur: quando si vive al caldo del proprio ruolo istituzionale, sarebbe consigliabile un pizzico di misura in più. Soprattutto in giorni gelidi come questi.