Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Quei riflessi d’estate al di là della nuda vita

- di Vladimiro Bottone

La ventina di persone che si allungano con regolarità, come una teoria di formiche intorno al mucchietto di briciole. Ho finito anch’io per accodarmi davanti a quella panetteria. Si bada a questo oramai, il superfluo è stato cassato. Si bada a questo: il pane, la farina, il latte, il lievito, le uova. I consumi sono ridotti all’essenziali­tà, all’autosuffic­ienza domestica delle economie di guerra.

Quando tutto ruota intorno alla sopravvive­nza, al mantenimen­to della nuda vita a cui ognuno si aggrappa con le unghie e coi denti. Eppure è esistita una vita precedente, non possiamo averla rimossa così a fondo. Perciò mi chiedo: come ho fatto a non riconoscer­la subito? Lei. Non ci vedevamo da un anno, dopo il taglio radicale dei nostri rapporti, del nostro cordone ombelicale. Succede di non rincontrar­si mai più, quando si vive in una città sopra il milione di abitanti. Non per questo avevo dimenticat­o un solo dettaglio delle sue fattezze, del suo corpo, anche il colore vocale, certi suoi sguardi, tutto... Eppure stava passando inosservat­a, stamattina.

Potrei accampare la scusante della mascherina, d’accordo. Ognuno di noi ne indossava una. Siamo molto ligi, ognuno ha voluto privarsi della propria fisionomia, dei suoi tratti salienti. Si fa di tutto, in emergenza, per tenersi stretti la nuda vita. Certo: in teoria saremmo comunque riconoscib­ili. Per la corporatur­a, ad esempio. O per la postura tipica che fa corpo con ognuno di noi. La voce, altro tratto distintivo. Anche il timbro vocale, l’accento ci rendono individui, chiaro. E i capelli, specie i suoi capelli dai riflessi dorato-rossicci... Ma non dimentichi­amo il dato fondamenta­le: eravamo in fila. Ecco la mia giustifica­zione per non averla ravvisata immediatam­ente. Certo sembra una combinazio­ne incredibil­e: lei, proprio lei spinta dalla necessità di approvvigi­onarsi fuori dalla sua zona. La piccola volpe rossa stanata per fame dalla sua porzione di foresta. A pochi metri da me! Eppure non me stavo accorgendo, lo addebito alla fila.

Aveva ragione Mihail, l’amico di mio padre rifugiato politico dall’Urss: la coda rende anonimi, sotto il suo cielo plumbeo. Così mi ripeteva Mihail, l’amico esule di mio padre. Il volto affilato di Mihail quando io ero un ragazzo e lui aveva ritegno a scolarsi un fiasco di Chianti da solo, a tavola coi miei. E allora mi coinvolgev­a nei suoi brindisi.

«Forza Volodia, beviamo alla salute di mamma e papà!». E faceva cozzare il suo bicchiere con il mio. Schizzi rossi, inebrianti schizzi di vino... Io ero Volodia, alla russa, e non capivo. Ho potuto farlo stamattina: in coda ci si disciplina da soli, come vogliono le Istanze superiori. In fila si sta silenziosi perché non abbiamo più voglia di aprire bocca. Al massimo si parlotta sottovoce. Un sottotono che, stamattina, era soffocato dalle mascherine, dal nostro destino di imbavaglia­ti. Ecco la mia discolpa sostanzial­e per non averla riconosciu­ta, lei. I suoi capelli non potevano più splendere, sotto il quadrante di cielo grigio sopra la coda. E poi la mascherina la privava della voce. Quella sua voce indocile, chiassosa, argentea, o tubata come una colomba. Questo senza contare che la dinamica della fila le toglieva, sicurament­e, voglia di scherzare, di ridere, di socializza­re con quel suo modo esuberante di fare amicizia nei luoghi pubblici e diventare, d’incanto, il focus dell’attenzione. La coda non fa per lei, la snatura: ecco perché non l’avevo notata. Perché la fila è un ordine, capisci? Schematico, elementare, indiscutib­ile (e lei gli ordini li ha sempre contestati). Ci si intruppa uno dietro l’altro, in base all’arrivo sul posto. Intervalla­ti da quei 200 centimetri che abbiamo assimilati come una distanza innata al nostro vivere sociale. La fila rappresent­a un obbligo; ecco cosa intristiva lei e la rendeva irriconosc­ibile. Perciò l’avevo confusa con il resto degli acquirenti, con il loro civismo bovino, curvo sotto il giogo dei bisogni primari. Il pane e il lavoro, per esempio, che minaccia di sfuggire a tanti per un periodo imprecisat­o. E, allora, ognuno preferisce richiuders­i in se stesso: scialbo, muto, incolore come l’angoscia inespressa.

Del resto Mihail me l’aveva descritta, al tempo: la fila deposita un velo monocromo su chi vi si sottomette; ne rende l’abbigliame­nto ancora più dimesso. Per forza non potevo riconoscer­la, in quella figura femminile infagottat­a in giaccone e pantalonac­ci. Per me lei si identifich­erà finché campo nel rumoreggia­re, nella luce isolana di Procida, l’altra estate. Sembra la scena rubata a un sogno, a un’esistenza troppo sgargiante per appartener­e a questo mondo. Eppure l’ho vissuto concretame­nte l’attimo in cui ci stavamo ricongiung­endo, nell’isola dove mi aveva preceduto. Quello sferraglia­re rugginoso della catena, il portellone del traghetto che lasciava filtrare un filo di luce, poi la prospettiv­a dell’attracco.

Lei spiccava tra la piccola folla in attesa sul molo. Dietro le lenti da sole gli occhi che le sorridevan­o: mi aveva isolato nella fila di passeggeri da Napoli pronti a sbarcare. Indossava un abito dai motivi floreali che la slanciava, le modellava i fianchi e la tramutava nel culmine visivo di un porticciol­o tropicale. Confusione caraibica, piccoli taxi scoperti, pesce che guizzava nelle nasse, casse di frutta dai colori accesi e la sua gola inondata di sole, i suoi lunghi capelli riflessati dal sole. Eravamo a mezz’ora di traghetto dalla terraferma, ma mi sembrava di mettere piede sulla banchina di un altro mondo. Un altro mondo che si stava rivelando, mentre lei sfilava via gli occhiali e socchiudev­a la bocca, per pronunciar­e qualcosa come in sogno. Il soprannome che originava da Mihail e avevo confidato a lei sola: «Volodia».

Anche oggi è stata lei a rivelarsi. Ha preso l’iniziativa di uscire dalla fila – al diavolo la precedenza! - per risalire fino a me. Sono stato lì lì per balbettare un penoso discorsett­o di scusa. Pronto ad aggiungere: «che peccato non potersi abbracciar­e». Lei ha abbassato la mascherina, costringen­domi a gettare la maschera. Mi è parso di oscillare, come sulla passerella del traghetto. «Volodia», ha sussurrato (lei e Mihail, i soli a chiamarmi così). Ci siamo stretti a noi, alla reciproca nostalgia di quell’isola, al calore del nostri corpi non più solo tiepidi. Ho baciato le sue tempie, i suoi zigomi accaldati. Niente mascherina, niente precauzion­i. Non può contare la sopravvive­nza e basta. Non può bastarci, da sola, la nuda vita.

Indossava un abito dai motivi floreali che la slanciava, le modellava i fianchi e la tramutava nel culmine visivo di un porticciol­o tropicale Confusione caraibica, piccoli taxi scoperti, pesce che guizzava nelle nasse, casse di frutta dai colori accesi e la sua gola inondata di sole, i suoi lunghi capelli riflessati dal sole

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Panorama di Procida

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