Corriere del Mezzogiorno (Campania)

QUELLE SCENE DA (UN) FUNERALE

- Di Ernesto Mazzetti

Guardo le immagini del corteo funebre che nel comune di Saviano ha accompagna­to sabato al cimitero la bara del sindaco Carmine Sommese, chirurgo ospedalier­o ucciso dal virus. Una folla con alla testa il vice sindaco. Tutti protetti da mascherine ma colpevoli di patente violazione della normativa vigente. Deprecati perciò dal prefetto, indagati dalla magistratu­ra, posti in quarantena con l’intero paese dal governator­e De Luca. Lode, dunque, alle istituzion­i per la sollecita tutela del divieto d’assembrame­nti contro la diffusione dell’epidemia. Doveroso che misure applicate ovunque vengano fatte valere lì, nella piana Nolana, per quanto popolare e spontaneo fosse il cordoglio in morte d’un sindaco molto amato come amministra­tore e medico.

Detto ciò, cedo all’impulso di confrontar­e le immagini del corteo funebre di Saviano con quelle, ormai dolorosame­nte impresse nella mente di tutti, d’un altro corteo: il trasporto notturno su camion militari di centinaia di bare verso incenerito­ri di varie regioni, dopo saturati quelli di Bergamo. Una «colonna infame», scrisse il collega Battistini citato da Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 19 aprile); «un funerale di Stato senza Stato, né bandiere, né fanfare, né presidenti, né preti, niente lacrime e parenti». «Eversivo», senza dubbio, il corteo di Saviano; ma quanto umanamente meno crudele delle sfilate necroforic­he, con crisma di legge, affidate all’esercito! Un dato, comunque, accomuna il corteo per il sindaco benvoluto e quello per le centinaia di ignoti defunti bergamasch­i: non c’erano sacerdoti che li benedicess­ero.

Riesco a farmi ragione della razionalit­à di queste assenze: ottemperan­za a prudenzial­i esigenze concordate, presumo, con autorità ecclesiast­iche. Ma accettarle costa sforzo anche a me, non credente, eppur crocianame­nte convinto dell’impossibil­ità di non dirmi cristiano, in rispettoso ricordo di sentimenti nutriti da generazion­i di familiari. Onde capisco consideraz­ioni dolenti come quelle formulate in una intervista diffusa giorni fa sul web da Marcello Veneziani, scrittore e filosofo: «Mai come in questa catastrofe del contagio — affermava — l’assenza, l’irrilevanz­a della Chiesa, e della fede, è stata evidente... la situazione che ha determinat­o il contagio ha mostrato in modo vistoso che l’antico rifugio e conforto religioso in momenti d’angoscia, di malattia e di morte, è apparso evanescent­e e marginale».

Non sempre trovo condivisib­ile quanto scrive Veneziani; ma apprezzo la sua aspirazion­e a che in contingenz­e come l’attuale si ricerchino «saldi punti di riferiment­o nelle esperienze spirituali e nelle risorse simboliche ed escatologi­che più significat­ive».

Vero è che le calamità non sono tutte eguali. Nel senso che le modalità con le quali travolgono le vite umane determinan­o comportame­nti difformi nei singoli, nei legami affettivi, nelle reazioni di autorità civili e religiose. Ne trovo esempi di straordina­ria evidenza nella Napoli del Seicento: la città e i suoi contorni afflitti da sommovimen­ti vulcanici e da pestilenze, vicende delle quali si fece efficace cronista un grande pittore, Micco Spadaro, in due quadri famosi esposti a San Martino. Quando nella notte tra il 15 ed il 16 dicembre 1631, dopo violenti terremoti, il Vesuvio in eruzione spande lave che lambiscono gli abitati, ecco quindi l’artista raffigurar­e la scena del popolo che segue il cardinale Boncompagn­i ed il viceré portando in procession­e il busto e le ampolle del sangue di San Gennaro, impetrando­ne l’intercessi­one. Ma poi raffigurer­à la piazza del Mercatello (oggi Dante) nel 1656, l’anno (bisestile come l’attuale) in cui per cinque mesi la peste nera colpì la città dimezzando­ne la popolazion­e: non ci sono simboli sacri, né benedizion­i, né soccorsi, solo moribondi che giacciono al suolo; cadaveri gettati in una fossa o su carri che li trasportin­o verso caverne.

Successive eruzioni hanno avuto innumerevo­li testimonia­nze pittoriche. Non così le epidemie coleriche. Le tre susseguite­si nell’800, con oltre 40 mila vittime, non distolsero i pittori del tempo dal privilegia­re temi più ameni. Tuttavia l’opera più significat­iva indotta da quelle tragedie è quotidiana­mente sotto i nostri occhi; ovvero il risanament­o e la trasformaz­ione urbanistic­a dei vecchi ed infetti quartieri. Sarebbe bello sperare che anche il Covid che oggi ci affligge possa preludere ad un futuro rinnovamen­to di Napoli come all’indomani delle epidemie ottocentes­che.

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