Corriere del Mezzogiorno (Campania)
QUELLE SCENE DA (UN) FUNERALE
Guardo le immagini del corteo funebre che nel comune di Saviano ha accompagnato sabato al cimitero la bara del sindaco Carmine Sommese, chirurgo ospedaliero ucciso dal virus. Una folla con alla testa il vice sindaco. Tutti protetti da mascherine ma colpevoli di patente violazione della normativa vigente. Deprecati perciò dal prefetto, indagati dalla magistratura, posti in quarantena con l’intero paese dal governatore De Luca. Lode, dunque, alle istituzioni per la sollecita tutela del divieto d’assembramenti contro la diffusione dell’epidemia. Doveroso che misure applicate ovunque vengano fatte valere lì, nella piana Nolana, per quanto popolare e spontaneo fosse il cordoglio in morte d’un sindaco molto amato come amministratore e medico.
Detto ciò, cedo all’impulso di confrontare le immagini del corteo funebre di Saviano con quelle, ormai dolorosamente impresse nella mente di tutti, d’un altro corteo: il trasporto notturno su camion militari di centinaia di bare verso inceneritori di varie regioni, dopo saturati quelli di Bergamo. Una «colonna infame», scrisse il collega Battistini citato da Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 19 aprile); «un funerale di Stato senza Stato, né bandiere, né fanfare, né presidenti, né preti, niente lacrime e parenti». «Eversivo», senza dubbio, il corteo di Saviano; ma quanto umanamente meno crudele delle sfilate necroforiche, con crisma di legge, affidate all’esercito! Un dato, comunque, accomuna il corteo per il sindaco benvoluto e quello per le centinaia di ignoti defunti bergamaschi: non c’erano sacerdoti che li benedicessero.
Riesco a farmi ragione della razionalità di queste assenze: ottemperanza a prudenziali esigenze concordate, presumo, con autorità ecclesiastiche. Ma accettarle costa sforzo anche a me, non credente, eppur crocianamente convinto dell’impossibilità di non dirmi cristiano, in rispettoso ricordo di sentimenti nutriti da generazioni di familiari. Onde capisco considerazioni dolenti come quelle formulate in una intervista diffusa giorni fa sul web da Marcello Veneziani, scrittore e filosofo: «Mai come in questa catastrofe del contagio — affermava — l’assenza, l’irrilevanza della Chiesa, e della fede, è stata evidente... la situazione che ha determinato il contagio ha mostrato in modo vistoso che l’antico rifugio e conforto religioso in momenti d’angoscia, di malattia e di morte, è apparso evanescente e marginale».
Non sempre trovo condivisibile quanto scrive Veneziani; ma apprezzo la sua aspirazione a che in contingenze come l’attuale si ricerchino «saldi punti di riferimento nelle esperienze spirituali e nelle risorse simboliche ed escatologiche più significative».
Vero è che le calamità non sono tutte eguali. Nel senso che le modalità con le quali travolgono le vite umane determinano comportamenti difformi nei singoli, nei legami affettivi, nelle reazioni di autorità civili e religiose. Ne trovo esempi di straordinaria evidenza nella Napoli del Seicento: la città e i suoi contorni afflitti da sommovimenti vulcanici e da pestilenze, vicende delle quali si fece efficace cronista un grande pittore, Micco Spadaro, in due quadri famosi esposti a San Martino. Quando nella notte tra il 15 ed il 16 dicembre 1631, dopo violenti terremoti, il Vesuvio in eruzione spande lave che lambiscono gli abitati, ecco quindi l’artista raffigurare la scena del popolo che segue il cardinale Boncompagni ed il viceré portando in processione il busto e le ampolle del sangue di San Gennaro, impetrandone l’intercessione. Ma poi raffigurerà la piazza del Mercatello (oggi Dante) nel 1656, l’anno (bisestile come l’attuale) in cui per cinque mesi la peste nera colpì la città dimezzandone la popolazione: non ci sono simboli sacri, né benedizioni, né soccorsi, solo moribondi che giacciono al suolo; cadaveri gettati in una fossa o su carri che li trasportino verso caverne.
Successive eruzioni hanno avuto innumerevoli testimonianze pittoriche. Non così le epidemie coleriche. Le tre susseguitesi nell’800, con oltre 40 mila vittime, non distolsero i pittori del tempo dal privilegiare temi più ameni. Tuttavia l’opera più significativa indotta da quelle tragedie è quotidianamente sotto i nostri occhi; ovvero il risanamento e la trasformazione urbanistica dei vecchi ed infetti quartieri. Sarebbe bello sperare che anche il Covid che oggi ci affligge possa preludere ad un futuro rinnovamento di Napoli come all’indomani delle epidemie ottocentesche.