Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Pregiudizio
Napoli è la prima grande città italiana dove la pandemia per ora si è fermata fuori della cinta daziaria. Nella città del colera, che ci viene sputato addosso da ogni curva da stadio e dal razzismo travestito da tifo, ieri il Covid-19 non ha ucciso nessuno. Ed è il quinto giorno consecutivo che il funesto numero dei decessi è inchiodato a quota 52, ringraziando i medici e il Padreterno. Ma ieri non è stato infettato nessuno (in tutto dall’inizio della pandemia sono 833). Sono sempre meno i ricoverati in terapia intensiva (appena 12) e in isolamento domiciliare ci sono 486 persone su quasi un milione di abitanti.
Persone, non numeri. Ma i numeri pure contano, però, e sono una boccata di salutare ossigeno. Certo, i numeri possono cambiare. Possono crescere.
Ma di quanto possono lievitare? Non tanto. E non è solo un auspicio: si viaggia da tempo su cifre basse, contenibili. Tranne qualche imprevisto, non dovrebbero esserci clamorose inversioni di tendenza. E non si può nemmeno invocare, per smentire questo dato di fatto, l’esiguità dei tamponi eseguiti in Campania. Da giorni e giorni le percentuali regionali si vanno allineando a quelle nazionali. Insomma, almeno a Napoli, sembra, che il lockdown abbia funzionato e abbia anticipato le previsioni statistiche che fissano per il prossimo 9 maggio il traguardo del «contagio zero» per l’intera Campania. Ci siamo messi avanti con i lavori.
Non è il caso di brindare, di cantare a squarciagola «un giorno all’improvviso», come se avessimo vinto il terzo scudetto. Piuttosto possiamo tirare un sospiro di sollievo, dare un’occhiata fuori del balconcino, sperando che il grigio della pioggia e della clausura comincino a diradarsi e che spunti una luce rinnovata, più pulita, più sana. E che alle 18 non cominci davvero il Giudizio Universale, sotto forma di conferenza stampa della Protezione Civile. Tocca però farsi delle domande, alle quali legittimamente e con maggiore scienza risponderanno, quando sarà, gli esperti, i tecnici, ammesso che una risposta scientifica possa essere data. Che cosa ha determinato questo risultato? Il clima? Forse, sebbene non è dato per certo che le temperature alte fermino il virus. Oppure dobbiamo ringraziare la resilienza tipica del napoletano che tra vibrioni e affini s’è conquistato un patrimonio genetico di anticorpi capace di creare un fuoco di sbarramento altrove inusuale? Ba’, può essere, ma siamo nel terreno minato del luogo comune apotropaico. Il minore inquinamento atmosferico? Improbabile: il livello delle polveri sottili abitualmente fa schizzare in alto le lancette delle centraline di rilevamento.
E allora? Molto probabilmente ha inciso, in quota parte, la natura economica e sociale della città. Napoli è essenzialmente una metropoli che vive di commercio e di terziario. Quando gli uffici e i negozi sono in gran parte chiusi e bar e ristoranti sono fate morgane che svaniscono quando ci si avvicina, le strade si svuotano in modo naturale e inesorabile. Esco? E che esco a fare? Ricordiamo tutti il deserto urbano dei mesi di agosto di qualche decennio fa, prima della febbre del turismo, con le saracinesche abbassate e via Toledo ridotta a un dipinto agorafobico di Giorgio de Chirico. L’effetto di queste settimane è addirittura più surreale. Sono aperti alimentari, farmacie, tabaccai. E solo nei mercatini popolari, dove fruttivendoli, pescherie, salumerie, macellerie, panetterie la fanno da padrone ci si affolla mantenendo il più possibile il distanziamento fisico. Altrove, nella affannata Lombardia, per esempio, dove l’economia ha un carattere più spiccatamente industriale, si è fermata poco meno della metà della produzione e la mobilità, solo parzialmente allentata, ha avuto il proprio peso nella circolazione del patogeno.
Ma più di ogni altra spiegazione va detto, con un pizzico d’orgoglio, che a Napoli ha funzionato e sta funzionando qualcosa di inedito, inedito agli occhi di chi si nutre di chiacchiere da salotto e di svalutate barzellette: i napoletani, in stragrande maggioranza, hanno rispettato e stanno rispettando la faticosa clausura, condizione, questa sì, del tutto innaturale per chi da secoli considera la strada (fosse anche un vicolo del Rione Sanità) e la piazza (fosse anche uno slargo dei Quartieri Spagnoli) come una seconda casa, dove rafforzare, nel bene e nel male, il proprio istinto di comunità. Sarà anche per una robusta vocazione teatrale, ma quando occorre sappiamo interpretare bene i nostri ruoli. Non siamo personaggi in cerca d’autore, ma riusciamo a stare sul palcoscenico da protagonisti. E se tocca vestire gli insoliti panni dei tedeschi riusciamo a farlo meglio di altri. Alla faccia di chi rimane deluso se in un incrocio del Vomero non trova la folla, ma cento metri di solitudine. E a scuorno mediatico di chi per giorni e giorni ha puntato telecamere e smartphone sul budello della Pignasecca, a caccia di untori e trasgressori, senza capire che se in certi scorci di Napoli cinque persone si mettono in fila distanziata e altre tre passano con la borsa della spesa non sembra una giornata qualunque, ma il Carnevale di Rio, per quanto i palazzi ai due lati della strada si stringono quasi ad abbracciarsi: anche per questo gli spazi comuni diventano luoghi comuni.