Corriere del Mezzogiorno (Campania)
LA TINTURA «FAI DA TE»
«Siete forse voi una di quelle Dame che tutte s’impiegano, col pensiero, l’industria, il danaro, nell’adornarsi in modo che nella tanta varietà de’ colori facciano maraviglia le fogge degli ornamenti del capo?», chiede l’anonimo Gesuita estensore della «Conversazione delle Dame», testo stampato a Venezia nel 1749 e dedicato alla Contessa Marianna Maffei veronese. Le signore tingono i capelli da tempi immemorabili, addirittura dal neolitico, epoca in cui si mescolava terra d’ocra gialla e rossa per impastarsi le chiome, sino all’antico Egitto, quando una pianta che ancora cresce lungo le rive del Nilo, l’Henné, dette materia prima per le tinture della regina Nefertiti, che però nel busto conservato al Museo Egizio di Berlino ha i capelli nascosti nella «corona a elmo», un copricapo che qualche napoletano irriguardoso chiamerebbe «cuppulone».
Ne fece uso meglio documentato Cleopatra, che però completava l’acconciatura intrecciandosi anche dei fili d’oro tra le chiome. È singolare come questa pianta — importata in Europa con l’espansione coloniale al pari del tè ed altre erbe ed essenze — non abbia mai smesso le sue funzioni, lasciandosi sovrastare soltanto dall’uso delle tinture chimiche dell’era industriale, rimanendo quale dispendioso prodotto di elite. La Conversazione delle Dame aveva come luogo deputato il boudoir e i moralisti dell’Arcadia ce ne hanno fatto conoscere gli argomenti — Quinto Settano, pseudonimo di Ludovico Sergardi è ricordato per la spietata satira ai cicisbei in parrucca bianca — che il tempo in realtà non ha mai cambiato del tutto.
Causa il distanziamento da quarantena, oggi le Dame chiacchierano da sole in salotto o nel tinello col cellulare in mano, o meglio attaccato al filo degli auricolari e il microfonino a portata di bocca. Uno dei temi di prammatica della conversazione tra le signore in quarantena è l’astinenza da parrucchiere, che col passare dei giorni manda molte di loro in depressione. Non tanto per lo shampoo o la messa in piega, che quello ci si riesce a farli da sole, col braccio della doccia e un po’ di bigodini. Ma la tinta no, proprio no. E dopo un poco ecco spuntare le righe bianche, lì dove la pettinatura separa i capelli e quel solco mette inesorabilmente in forse il biondo, il rosso, il nero e in qualche caso fortunatamente raro l’azzurro, che oggi è il massimo dell’originalità, ma in epoca romana era segno di distinzione per le matrone delle familiae di buon sangue.
Fioccano consigli sul web, per una «perfetta colorazione fai da te» e offerte di prodotti per un «trattamento sublimatore del colore». E l’ultima novità è legata al diffondersi dello smart working, parrucchieri disposti a dirigere da remoto le operazioni via Skype o WhatsApp. Ma è lo stato d’animo che andrebbe recuperato, le Signore in angustie andrebbero convinte che le stagioni della vita vanno vissute per quelle che sono, non per quelle che si vorrebbe che fossero. Lo testimonia il bianco della riga o quello che si affaccia sotto i riccioli alle tempie in un tempo in cui le leggi della natura che ci circonda riprendono forza e ci costringono a meditare su noi stessi. Compito che spetta a mariti, compagni, figli. Ed anche padri: una mia figlia di età matura mi ha mostrato in una video telefonata la sua riga e le sue tempie fattesi bianche. Le ho fatto la morale di cui sopra, ma col cuore velato di tristezza, perché per il papà lei è sempre quella di una foto sbiadita poggiata sul comò della camera da letto: una bimba vestita di bianco, il giorno della sua prima comunione.