Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Caro teatrante, ti scrivo. Qualcosa qui non va
Il settore va rifondato come arte sociale quando la diffusione del coronavirus si sarà arrestata
Caro teatrante, ti scrivo/ perché mi fai incazzare anche mò. / E meno male che sei molto distante, così m’incazzo soltanto un po’./Da quando sei ammutolito/non c’è alcuna novità./I teatri sono chiusi ormai/ma ogni cosa ancora qui non va... Sì, una parafrasi ironica, stavolta applicata al teatro, de L’anno che verrà, la grande canzone di Lucio Dalla di cui già Eduardo Cicelyn si servì in queste pagine per celiare intorno alla propria quarantena forzata. Però la smetto subito: non solo in ossequio al proverbio, che sancisce la breve durata di ogni gioco, ma anche e soprattutto in forza della gravità della situazione in atto.
Ho letto con molta attenzione, in queste settimane, le interviste rilasciate dai teatranti ai giornali. E con attenzione non minore ho ascoltato i videointerventi che hanno messo in rete. Ma, tirate le somme, mi tocca constatare che ho letto e ascoltato la solita solfa: i teatranti, sostanzialmente, non hanno fatto altro che parlare di se stessi, a partire dall’esigenza (legittima e rispettabile, certo, come quella di qualsiasi altro lavoratore) che si provveda ai loro bisogni economici. Al massimo, e solo di sfuggita, hanno accennato ai problemi di riorganizzazione, o meglio di rifondazione, che il settore teatrale dovrà affrontare quando la diffusione del coronavirus si arresterà.
Per esempio, Alfredo Balsamo ci ha informati, in una lettera ospitata nelle pagine napoletane de La Repubblica, che il Teatro Pubblico Campano da lui diretto «gestisce trenta teatri», che è «un’azienda sana», che dei suoi 16 dipendenti fissi e degli altrettanti a contratto «nessuno perderà il lavoro», che a nessuno di loro «sarà messo in discussione lo stipendio». Ci fa piacere, naturalmente. Ma, siccome il Teatro Pubblico Campano non è un salumificio (con tutto il rispetto per i salumifici), ci avrebbe fatto ancora più piacere se Balsamo ci avesse informati pure sul tipo di spettacolo che distribuirà nei trenta teatri del circuito quando saranno riaperti.
Non a caso, però, Balsamo inneggia al teatro che continuerà a raccontare le storie, «fantastiche e bellissime», di cui a suo dire avremo sempre bisogno. Non a caso perché un analogo argomento mise in campo il qualcuno che tentò di sminuire l’articolo nel quale sostenevo che si può (anzi, si deve) fare a meno del teatro autoreferenziale votato al semplice ed evasivo intrattenimento. Si tirò in ballo, allo scopo, un’affermazione di Sarah Kane: «Io credo che, se una città fosse distrutta da una bomba, la gente per prima cosa andrebbe a cercare cibo e un tetto, e non appena avesse provveduto a queste necessità, comincerebbe a raccontarsi delle storie». Ma ci si dimenticò di un piccolo particolare, che Sarah Kane si uccise. E proprio perché, evidentemente, le «storie», che lei stessa raccontava, non bastano a neutralizzare la feroce impassibilità della vita.
Noi non abbiamo bisogno di un teatro che racconta storie, a raccontare storie ci pensano già le fiction tv. Abbiamo bisogno di un teatro che riscopra se stesso in quanto arte sociale per eccellenza, che, dunque, inneschi riflessioni capaci d’innescare a loro volta comportamenti intesi, per l’appunto, a far crescere la società. Abbiamo bisogno di un teatro che, perciò, scelga finalmente quale può e dev’essere il suo posto nel mondo. Abbiamo bisogno, in breve, di un teatro che risponda almeno ai seguenti tre interrogativi fondamentali: che tipo di pubblico intende raggiungere, tenuto anche conto di un fenomeno come l’analfabetismo di ritorno e del fatto che, di conseguenza, una più che alta percentuale d’italiani non è in grado di capire un testo, anche un semplice articolo di giornale? Che tipo di messaggio intende mandare a quel pubblico? Che tipo di rapporto intende costruire con gli spettatori, segnatamente quelli giovani che oggi latitano, al di là dell’incontro occasionale costituito dallo spettacolo?
Non mi soffermo, è ovvio, sul fatto che proprio la lacerazione del tessuto comunitario indotta dal coronavirus ha reso ancora più impellente la necessità che il teatro riscopra se stesso in quanto arte sociale. E riassumo quanto detto sinora con l’ossequio a una delle lezioni decisive lasciateci da quel poeta della scena contemporanea che fu Antonio Neiwiller: la lezione, che di recente mi ha ricordato Raffaele Di Florio, sull’importanza della «relazione vitale», che «teatro non è, ma lo alimenta».
Alla luce di tutto questo arrivo, ora, al Napoli Teatro Festival Italia. Il suo direttore, Ruggero Cappuccio, ne ha annunciato lo slittamento a settembre. Ma c’è da chiedersi in che modo potrà mai svolgersi se, com’è assai probabile, resteranno in vigore anche in autunno le attuali disposizioni in materia di distanziamento sociale. Ne ho parlato con Vincenzo Salemme, uno che di platee piene se ne intende. Visto che bisogna garantire la distanza di almeno un metro fra uno spettatore e l’altro e visto che, mettiamo, la larghezza di una poltrona è di mezzo metro, significa che intorno a uno spettatore dovrebbero essere lasciate vuote due poltrone alla sua destra, due poltrone alla sua sinistra, due poltrone dietro di lui e due poltrone davanti a lui. In tutto fanno otto poltrone vuote per una sola poltrona occupata. E poi, come farebbero gli attori a recitare certi testi? Romeo, poniamo, resterebbe a vita sotto il balcone di Giulietta.
Infine, il programma. Nell’illustrarlo Cappuccio ha sottolineato, come volevasi dimostrare, soprattutto lo spettacolo Resurrexit Cassandra, testo suo e regia di Jan Fabre. E dal momento che Fabre davvero non rappresenta una novità per il Napoli Teatro Festival Italia e che il testo di Cappuccio parla di «una Cassandra che torna sulla terra al giorno d’oggi e invita l’umanità a comprendere il pericolo che il pianeta muoia», io subito ho ripensato ad Architecture, splendido spettacolo di Pascal Rambert che vidi il 22 febbraio all’Arena del Sole di Bologna, nell’ambito del prezioso Vie Festival organizzato da Emilia Romagna Teatro.
È lo spettacolo che il 4 luglio dell’anno scorso aprì nella leggendaria Cour d’Honneur del Palazzo dei Papi il festival di Avignone. E avvalendosi di un cast d’eccezione capitanato da Emmanuelle Béart e Jacques Weber, svolge il tema di quell’Europa che, nonostante la ricchezza spirituale e culturale, non fu capace di fronteggiare il dilagante orrore che avrebbe portato all’Anschluss. Parliamo della stessa Europa che oggi non sa fronteggiare, unita, la dilagante minaccia del Covid-19.
Debora Pietrobono, responsabile dell’ufficio stampa di Emilia Romagna Teatro, mi ha detto della sua prima Pasqua a Bologna, lontano dalla famiglia che vive a Roma. E mi ha raccontato dei vicini meravigliosi che le hanno regalato il loro pranzo, lasciandoglielo sulla porta. A me manca molto, Bologna. Manca la stazione, con lo squarcio nel muro a ricordare la bomba fascista del 1980. Mancano i portici, sotto i quali Lucio Dalla lo incontri sempre, anche se non lo vedi. Mancano le facce e i nomi del Sacrario dei Partigiani, davanti al quale mi fermo ogni volta che passo in Piazza del Nettuno. E un pensiero strano mi danza in capo: forse c’è un nesso fra la scelta di Emilia Romagna Teatro di presentare in «prima» nazionale uno spettacolo come Architecture e quel pranzo di Pasqua lasciato sulla porta di Debora.
Uscita di sicurezza Come si potrà svolgere il Napoli Teatro Festival a settembre se resteranno in vigore le misure di distanziamento sociale? Per ogni poltrona occupata ce ne vorranno otto vuote intorno E come faranno gli attori a recitare determinati testi? Il futuro non sarà raccontare storie ma innescare riflessioni