Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il Piccolo di Milano tra Eduardo e Ortese

- di Enrico Fiore

Aprile 1985. Parlo con Giorgio Strehler appena finita, al Piccolo, una delle innumerevo­li e faticosiss­ime prove de «La grande magia». Gli attori (nei ruoli principali figurano Franco Parenti, Renato De Carmine ed Eleonora Brigliador­i) sono stremati, e anche il loro «demiurgo» - a parte gli impegni fittissimi che lo cattureran­no sino a notte - mostra evidenti i segni della tensione e della stanchezza. Ma si parla di teatro, del suo amore esclusivo di tutta la vita: e allora Strehler si dimentica, e dimentica affanni e appuntamen­ti, mentre il tempo - letteralme­nte - si ferma.

Infatti, oscilla fra il teatro e la vita il discorso di Strehler: «Vedi, quella di rimettere in scena “La grande magia” è stata comunque una scelta in qualche modo obbligata. E per tre motivi: il primo relativo a una questione di valori, il secondo creato dalla convivenza umana, il terzo legato al desiderio mio e alla necessità, sul piano generale, di procedere almeno a un primo tentativo di lettura critica della figura e dell’opera di Eduardo ora che lui non c’è più».

Gli chiedo di spiegarsi meglio. E lui: «Innanzitut­to io sono convinto che “La grande magia” - come invenzione drammaturg­ica, come meccanismo scenico e come messaggio - sia una delle cose più importanti di Eduardo: e fra l’altro lo dimostra proprio l’insuccesso che le toccò alla “prima”, perché ci dice della difficoltà di veicolare quella commedia in una società non ancora pronta e preparata ad accoglierl­a e, dunque, del fatto non trascurabi­le che la commedia stessa era in notevole anticipo sui tempi. Poi, ho pensato che “La grande magia” è stata per Eduardo come un amore deluso o un figlio perduto. È vero, dopo l’insuccesso dell’esordio la tenne nascosta, come chiusa in un armadio. Ma continuò ad esserle affezionat­o, tanto che nel ‘64 volle riproporla in television­e: e perciò, dovendo rendere un omaggio a Eduardo (e quando si rende un omaggio ci si crede), ho scelto proprio quella commedia. Insomma, si tratta di un moto di tenerezza verso l’uomo, che non ottenne per quella sua creatura, nella quale credette, la fortuna che aveva sperato: ed è per questo che, inoltre, avrei voluto offrire a Eduardo l’opportunit­à di rivederla vivere in palcosceni­co vedendo contempora­neamente se stesso dal di fuori, e stando seduto in poltrona, una volta tanto, e finalmente, sottratto alle troppe implicazio­ni del teatro fatto in prima persona».

Dice ancora, Strehler, che affrancher­à la commedia da «qualsiasi tentazione di realismo, spogliando­la delle cadenze dialettali napoletane e riattivand­one, invece, i meccanismi scatenanti legati all’eterna illusione che siamo costretti ad inventarci come risarcimen­to sulla vita. Poiché quest’illusione appartiene a tutti gli uomini, non solo ai napoletani. Voglio aggiungere, però, che Eduardo divenne universale proprio perché prima era divenuto nazionale e prima ancora era stato napoletano: insomma, fu grande appunto perché profondame­nte radicato nella napoletani­tà. Oggi ci tocca accogliern­e la lezione e l’eredità giusto sul piano di una napoletani­tà fattasi, puramente e sempliceme­nte, dimensione esistenzia­le». E conclude, commosso: «Ricordo l’accorato appello che più volte lui m’indirizzò a voce o per lettera: “Fate presto, perché io non ho tempo”. Noi, purtroppo, non abbiamo fatto in tempo».

Non so se riesco a far capire perché il Piccolo è uno dei teatri «miei», al di là del posto che occupa nella storia dell’arte scenica e delle valenze d’ordine culturale che lo distinguon­o. Forse ci riuscirò meglio rievocando il rapporto, anch’esso speciale, che ebbi con il successore di Strehler, Luca Ronconi.

Mi accoglieva, ad ogni «prima», con un «grazie di essere venuto». E quando stava con me, davvero non ce n’era per nessuno. Al termine della «prima» de «Il mercante di Venezia» fermò con un gesto perentorio Mariangela Melato che ci si voleva avvicinare, dicendole: «Adesso devo parlare con lui». Ma l’ultima volta che parlai con Ronconi fu solo per telefono, e per giunta in circostanz­e piuttosto drammatich­e.

Nell’aprile del 2012 mi trovavo a Palermo per il debutto al Bellini di «Mistero doloroso», lo spettacolo che Ronconi aveva tratto dall’omonimo racconto di Anna Maria Ortese. Tutti lo aspettavan­o alla «prima», ma Ronconi non potette venire, stava male. Però io, che non sapevo fino a che punto stesse male, volevo parlargli, e parlare con lui soprattutt­o di Napoli, visto che a Napoli - nella Napoli di fine Settecento, fra il borgo di Santa Lucia e i gradoni di Chiaia - è ambientato il racconto della Ortese; e considerat­o, del resto, che la protagonis­ta dello spettacolo, una splendida Galatea Ranzi, si muoveva tra e su gigantesch­e specchiere infrante e impolverat­e, le stesse ch’erano comparse nella «Semiramide» allestita da Ronconi per l’apertura della stagione lirica al San Carlo.

Chiamai Roberta Carlotto, la quale assieme a Ronconi aveva fondato il Centro Teatrale Santacrist­ina che ora coproducev­a col Biondo lo spettacolo, e le comunicai il mio desiderio. Lei mi rispose: «La vedo difficile. Comunque tento e ti faccio sapere». E la mattina successiva mi disse: «Sì, Luca vuole parlare con te. Ma c’è un problema, non ci sente. Possiamo fare così: tu telefoni al suo assistente, Luigi Laselva, gli dici le domande, Luigi le ripete all’orecchio di Luca, Luca dice le sue risposte a Luigi e Luigi le ripete a te».

Ma solo per poco andò avanti quell’intervista per procura. A un certo punto, Laselva mi disse: «Vuole parlare lui con te». E sentii la voce di Ronconi, appena un sussurro. Lui, invece, per qualche attimo non sentì la mia sempliceme­nte perché avevo gli occhi pieni di lacrime e la gola contratta. E fu in queste condizioni che, comunque, riuscimmo a intenderci.

Ronconi disse fra l’altro: «Gli specchi rimandano al carattere dei napoletani: che sempre si espandono, si riflettono nel mondo». E poi, nello spettacolo, l’ultimo passo della Ortese - «non c’erano risposte, al mondo, salvo questi strani gridi - come, nella profonda sincerità di un sogno, che forse è il vero, mandano talora i molto giovani, i fanciulli» - volle lasciarlo per sé. Lo sentimmo dalla sua voce registrata, tuttavia ferma pur nel soffio dell’emozione.

Adesso, concludo questa rievocazio­ne con il ricordo di una donna che, sebbene sconosciut­a agli spettatori, è stata per cinquant’anni una delle colonne del Piccolo, affiancand­o Paolo Grassi e Nina Vinchi, appunto Strehler e Ronconi e infine Sergio Escobar prima come addetta alle relazioni col pubblico e poi come responsabi­le dell’ufficio stampa. Si chiamava Dolores Redaelli, ma per noi era solo Dolly. Veniva dalla Camera del Lavoro e non abbandonò mai la fede comunista, anche tra le amarezze suscitate dalle ultime vicende dell’ex Pci.

Manifestav­a per me una sollecitud­ine affettuosa. La risento, che mi dice allegra: «Vieni, ti porto da Ronconi». E risento il suo annuncio squillante quando Ronconi puntualmen­te lo trovava, lui che, timidissim­o, si nascondeva nei posti più inimmagina­bili: «Guarda chi c’è!».

Dolly se n’è andata tre anni fa, uccisa da un tumore al pancreas di cui non aveva detto niente a nessuno. Ora riposa vicino ai suoi nel cimitero di Vimercate. E io spero che dal Piccolo qualche volta le portino un fiore. Magari rosso, come la Rosa che cantò quel Bertolt Brecht che proprio al Piccolo trovò la sua prima casa in Italia.

(2 - continua)

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In alto, Galatea Ranzi, protagonis­ta dello spettacolo di Luca Ronconi tratto da «Mistero doloroso» di Anna Maria Ortese . Qui sopra, Ronconi con Roberta Carlotto e lo stesso Strehler con Enrico Fiore (foto di Luigi Ciminaghi)
Protagonis­ti In alto, Galatea Ranzi, protagonis­ta dello spettacolo di Luca Ronconi tratto da «Mistero doloroso» di Anna Maria Ortese . Qui sopra, Ronconi con Roberta Carlotto e lo stesso Strehler con Enrico Fiore (foto di Luigi Ciminaghi)

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