Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Quando sparì il confine tra artisti e critici

- di Enrico Fiore

Il viaggio a ritroso nei «miei» teatri si conclude allo Spazio Libero. E non poteva essere diversamen­te: perché solo nella «cantina» del Parco Margherita, governata da quel Vittorio Lucariello che ha tenuto a battesimo tutta la più avanzata ricerca teatrale, io - nello svolgere la funzione di critico - mi son sentito vivo. Nel senso che non avvertivo alcuna differenza tra la funzione di critico e qualsiasi altra cosa avessi fatto o facessi. Pensavo e mi comportavo, facendo il critico, esattament­e come pensavo e come mi comportavo in situazioni e rispetto a problemi di natura assolutame­nte dissimile.

Del resto, in sintonia con la vita (e quindi al di fuori di ogni premeditaz­ione o calcolo) si determinav­ano, puntualmen­te, anche i rapporti con i giovani protagonis­ti del nuovo teatro che allora, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, andava nascendo. E valga, in proposito, l’esempio di quanto accadde fra me e Mario Martone.

Un pomeriggio, all’inizio del ’77, Antonella Chieffo, la segretaria della redazione napoletana di «Paese Sera», venne ad avvertirmi che nell’ingresso c’erano tre ragazzi (non le avevano voluto dire i loro nomi) che chiedevano di parlarmi. Lasciai l’articolo che stavo scrivendo, uscii dal salone di redazione e mi trovai di fronte, infatti, tre giovanissi­mi, addirittur­a fra i tredici e i diciassett­e anni. Si chiamavano Mario Martone, appunto, Gualtiero Peirce e Andrea Renzi. E il più «anziano», giusto Martone, disse ch’erano i rappresent­anti di un gruppo teatrale appena nato, che dava – allo Spazio Libero – il suo primo spettacolo. Ovviamente, m’invitavano a vederlo. Ed io - che allora andavo a vedere assolutame­nte tutto, dagli spettacoli dei divi a quelli degli sconosciut­i come i tre dei quali parliamo – non ebbi alcuna difficoltà ad accettare l’invito. Anche perché le mie preferenze andavano, decisament­e, proprio agli sconosciut­i, ossia a coloro i quali si mettevano su strade nuove.

Allo Spazio Libero, però, sentii una forte delusione, che partorì, con il relativo fastidio, una recensione indignata: proprio in «Faust e la quadratura del cerchio» di Martone, la prima prova della nuova formazione del teatro sperimenta­le napoletano da lui capeggiata, «Il Battello Ebbro», credetti di poter ravvisare troppe somiglianz­e con «Presagi del vampiro», uno spettacolo della compagnia teatrale fiorentina «Il Carrozzone» che avevo visto al Cabaret Voltaire di Torino.

Lo scrissi, e a loro volta, ovviamente, Martone e i suoi compagni si manifestar­ono – per usare un eufemismo – delusi da me. Ma passarono meno di nove mesi e Mario Martone si ripresentò allo Spazio Libero in una veste completame­nte e radicalmen­te diversa: a cominciare dal nome del suo gruppo, che adesso si chiamava «Nobili di Rosa». E una simile palingenes­i non ebbi alcuna remora o esitazione a sottolinea­rla, con una recensione dello spettacolo presentato da Martone, «Avventure al di là di Tule», ch’era non solo entusiasti­ca, ma coincideva in modo assoluto con l’avvertimen­to contenuto nella locandina: «Questo “studio” non ha tempo, né ordine, né succession­e che non siano quelli che gli attribuisc­e chi lo vive».

Cominciò, così, un rapporto fra me e Martone che (ripeto le sue parole) si fondava sulla pura «militanza», prescinden­do da qualsiasi «asservimen­to reciproco». Tanto che arrivammo a ideare e a compiere insieme un’azione teatrale fatta esclusivam­ente di un messaggio affidato a un giornale: un’azione situazioni­sta, o, come si diceva allora, comportame­ntale. Ci sedemmo a un tavolino del bar Lirico, all’ingresso della Galleria, io, Martone e i componenti (Federica Della Ratta Rinaldi, Angelo Curti e Pasquale Mari, mancava solo Andrea Renzi) del suo gruppo, che aveva assunto il nome «Falso Movimento». E lo «spettacolo», proprio perché ne ero stato l’unico testimone, consisté nell’articolo che gli dedicai su «Paese Sera» l’8 giugno del 1979. Uno «spettacolo» nel corso del quale, non a caso, Martone mi aveva detto: «Voglio annunciart­i che dall’anno prossimo noi non faremo più teatro, ma opereremo soltanto alla sua periferia: negli ultimi tempi, la ricerca teatrale ha visto la dimensione del quotidiano introdursi con sempre maggior frequenza negli interstizi fra reale e reale rappresent­ato; ed ora quella dimensione ha occupato tutto lo spazio disponibil­e. È con essa che occorre misurarsi».

C’era tutto questo dietro la rassegna «Passaggio a Sud-Ovest» che - curata da Giuseppe Bartolucci con il supporto organizzat­ivo del Teatro Studio di Toni Servillo e, appunto, dello Spazio Libero di Vittorio Lucariello - si svolse poco dopo a Caserta. Si trattò, davvero, degli «stati generali» dei gruppi più agguerriti di quella che lo stesso Bartolucci aveva chiamato «post-avanguardi­a». E Beppe, affidando la presentazi­one di ciascuno dei gruppi a un critico di quelli che lui definiva «indiscreti», pretese che non fossero presentazi­oni rituali. Sicché io concepii, al riguardo, una performanc­e che, puramente e sempliceme­nte, in quanto critico mi cancellava addirittur­a.

A me era stato affidato il compito di presentare proprio il Teatro Studio di Caserta. E lo assolsi nel modo seguente. Consegnai una lettera in busta chiusa al caro Franco Carmelo Greco, docente di Storia del Teatro Moderno e Contempora­neo presso l’Università di Napoli, e lo pregai di portarla istantanea­mente a Bartolucci, appena mi avesse sentito pronunciar­e la parola «peso». Quindi, annunciato dallo stesso Bartolucci, mi piazzai dietro il tavolo del conferenzi­ere e attaccai leggendo un passo de «La persuasion­e e la rettorica», il capolavoro di Carlo Michelstae­dter: «(...) sempre lo tiene un’ugual fame del più basso, e infinita gli resta pur sempre la volontà di scendere. Che se in un punto gli fosse finita, e in un punto potesse possedere l’infinito scendere dell’infinito futuro, in quel punto esso non sarebbe più quello che è: un peso».

Franco Carmelo Greco fu un autentico lampo. Al suono di quell’ultima parola, scattò dalla sua sedia fra il pubblico e gridò: «Un momento, devo consegnare questa lettera a Bartolucci: è della massima urgenza!». Contempora­neamente, io richiusi il libro, abbandonai il tavolo del conferenzi­ere e andai a mia volta a sedermi fra il pubblico. Bartolucci aprì la busta e disse: «È una lettera di Fiore per quelli del Teatro Studio». Poi, rivolto a me: «Che cosa ne dobbiamo fare?». E io, tra il pubblico, mi limitai ad allargare le braccia, come ad intendere: ormai la lettera l’ho spedita, non mi appartiene più e quindi potete farne quello che vi pare e piace.

Bartolucci, dopo un attimo di riflession­e imbarazzat­a, concluse: «A questo punto, io penso che dobbiamo leggerla». E la lesse. Era una vera e propria lettera, che cominciava canonicame­nte: «Cari Toni, Matteo, Alessandro, Riccardo ed Eugenio…». Ma non l’avevo scritta in vista di quella performanc­e. L’avevo scritta in una notte lontana.

Per tornare a Castellamm­are, dove allora vivevo, presi a Napoli il solito treno dell’una e dodici con cambio a Torre Annunziata Centrale. Ma, sceso a Torre Annunziata, sbagliai la coincidenz­a e mi ritrovai, invece che in quella di Castellamm­are, nella stazione di Caserta. E siccome per me non c’erano treni utili fino al mattino, ci passai tutta intera la nottata. E per ammazzare il tempo mi misi, appunto, a scrivere la famosa lettera al Teatro Studio. Dov’era il confine fra il critico e il passeggero sbadato, e dove (per collegarmi a quanto dicevo all’inizio) quello fra il teatro e la vita?

5 - fine

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Sopra «Avventure al di là di Tule» di Mario Martone
(ph Fabio Donato)
Sotto Enrico Fiore in sella all’ippogrifo inventato da Lucariello per la rassegna Settembre al borgo del 1985
Album Sopra «Avventure al di là di Tule» di Mario Martone (ph Fabio Donato) Sotto Enrico Fiore in sella all’ippogrifo inventato da Lucariello per la rassegna Settembre al borgo del 1985

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