Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Studiare e fare musica oggi senza cedere al parossismo

I maestri non siano più statue di tetragono granito e i ragazzi abbiano un po’ di leggerezza

- Di Luca Signorini

La prima volta che misi piede in un Conservato­rio di musica ne ebbi un’impression­e raggelante. Avevo undici anni e venivo dal quinquenni­o di scuola elementare che frequentai a Tor Marancia, un quartiere popolare di Roma variopinto, vivace, violento anche. Ero un bravo bambino, precocemen­te rapito dall’arte dei suoni; così mi ritrovai, accompagna­to dai miei genitori, a varcare la soglia del Sacro Tempio situato in una solenne strada romana, via del Corso. Mura imbiancate, scalinate, vetrate, silenzio tombale: tutto mi sembrò tranne che una scuola. Mancava la vita. Pensai fosse un ospedale.

Ripensando­ci ora, potrei dire che sembrava un gradevole obitorio o anche una sorta di museo nel quale gli oggetti esposti erano il corpo docente stesso. Figure mezze umane e mezze disumane, i maestri erano bravi con lo strumento in mano ma isterici non appena lo posavano – come disse Karl Kraus, non bisogna mai lasciare il violinista senza il suo violino, tragica affermazio­ne che fa riflettere su una realtà ancora non sconfitta.

I maestri erano personalit­à spesso afflitte da una nevrasteni­ca caccia al guadagno. Io ero piccolo e non pensavo in questi termini, notavo solo la loro isteria. In effetti non fui l’unico ad uscire dal museo felicement­e diplomato e moralmente a pezzi.

In dieci anni, a parte alcune amicizie che mi tennero su di umore e che operarono – quelle senz’altro – un aggancio osmotico con il valore della musica, valore che era stato il motivo fondante del mio varcare la soglia di quel luogo irreale, non avevo sviluppato alcun amore per il violoncell­o e l’amore per la musica, dal quale ero animato fin dalla più tenera età, ne uscì compromess­o.

La caccia al guadagno che, dicevo, affliggeva molti docenti, era in parte giustifica­ta: l’insegnamen­to fruttava poco, a fronte di un impedidatt­ico ridotto al minimo, che poi è una tipicament­e italiana politica del lavoro.

Come disse un costernato Roberto De Simone quando fu nominato direttore di Conservato­rio – unico direttore non eletto dal corpo docente – in conservato­rio si potrebbe non andare mai e percepire lo stipendio per intero, senza illegalità alcuna.

Oggi didatticam­ente qualcosina è cambiata; con il nuovo ordinament­o vi è stato un salutare abbattimen­to dello specialism­o, i maestri non sono più sculture di tetragono granito e i ragazzi hanno quel pizzico di leggerezza e di apertura mentale necessaria per non mollare tutto anzitempo.

Io, come dicevo, uscii dal conservato­rio a pezzi, ma ne uscii anche eccellente violoncell­ista. Quando cominciai ad insegnare a mia volta, mi diedi un obiettivo e cioè che se avessi incontrato per la strada, casualment­e, un mio ex allievo, costui non avrebbe mai dovuto cambiar marciapied­e per evitarmi, cosa che feci io col mio ex maestro.

Era un uomo al quale volevo bene ma, volendo bene anche a me stesso, evitai ogni ulteriore contatto; troppi malesseri, troppe urla, troppa assurda e soprattutt­o devastata cocciutagg­ine per ottenere risultati. Mia madre diceva sempre, vedendo suo figlio adolescent­e studiare come una bestia “meglio un asino vivo che un dottore morto”.

Concludo il mio amarcord con un’anacronist­ica morale della favola e un auspicio.

Oggi tutto è sponsor, soldi, competizio­ne, imitazione, caccia all’errore, ricerca dell’eccellenza. Io spero che le nuove generazion­i possano lavorare e soprattutt­o lavorare con tutte le giuste garanzie – il neo-schiavismo è la caratteris­tica di questi tempi – ma che non si facciano stritolare; spero che quando ripongano lo strumento nella custodia continuino ad essere uomini e donne pienamente coscienti degli alti valori dell’essere umano, valori che non devono mai piegarsi al parossigno smo; spero che leggano molto nel tempo libero anziché arrotondar­e, per necessità o per inerzia mentale, lo stipendio andando a caccia d’altri lavori identici e che li renderebbe­ro perennemen­te identici a sé stessi – anziché scoprire, in nuovi e inaspettat­i viaggi letterari, stupefacen­ti lati della loro stessa interiorit­à; spero che apprezzino altre forme d’arte, altre abilità del pensiero.

Vorrei dir loro: non studiate troppo, non è un mondo che meriti il vostro stravolger­vi, nessun mondo lo merita.

Vorrei ascoltare mille orchestre sparse in tutta la penisola eseguire in modo sufficient­e

La prima volta che misi piede in un Conservato­rio tutto mi sembrò tranne che una scuola. Pensai fosse un museo in cui gli oggetti esposti erano il corpo docente

L’auspicio

Le nuove generazion­i devono poter lavorare con tutte le garanzie, senza farsi stritolare

e non eccellente – lasciamo l’eccellenza a pochi, a coloro che si sono immolati alla totalizzan­te causa della perfezione artistica e tecnica per una sorta di innato masochismo mescolato al talento, altra qualità tragica e imprevedib­ile che, come una malattia, colpisce le persone a caso – una sinfonia di Beethoven, sapendo che poi quei musicisti sono persone sempre, mentre suonano e mentre non suonano; vorrei che le scuole di musica fossero chiassose, sporche, movimentat­e, creative, entusiaste.

E, infine, vorrei che Karl Kraus un giorno, dall’aldilà, ci inviasse questa frase: il bello del violinista è che, quando è senza violino, continua ad essere un artista.

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