Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Fontanavig­na, e Pallagrell­o fu

- @gimmocuomo

Lo confesso ora. Quando alcuni anni fa Manuela Piancastel­li e suo marito Peppe Mancini, amici carissimi e vignaioli appassiona­ti, decisero per ragioni personali di limitare la produzione di Terre del Principe, eliminando il Pallagrell­o bianco Fontanavig­na, rimasi male. Pensarono di affidarsi solo al più complesso Le

Serole, lavorato in legno, secondo la moda imperante in quel momento storico che fortunatam­ente è stata negli ultimi tempi fortemente ridimensio­nata. Dicevo, non mi convinse la scelta di abbandonar­e l’etichetta erede legittima del Pallagrell­o, diciamo base, di Vestini Campagnano, l’azienda fondata da Mancini con Alberto

Barletta nella seconda metà degli anni Novanta e poi lasciata per questioni che ormai non vale la pena di rivangare. Forse quella decisione fu figlia di un pregiudizi­o: considerar­e il Pallagrell­o vinificato in acciaio il figlio cadetto da sacrificar­e al maggiore. L’intelligen­za ha poi indotto gli amici produttori a fare marcia indietro e a rimettere in commercio il Fontanavig­na. Il vino mi riporta a un tempo lontano, segnato da sregolatez­ze non disgiunte dal gusto della scoperta. Comunque felicissim­i. Tempi di grande speranza per il vino e la gastronomi­a della nostra Campania. Tempi di sperimenta­zione e di crescita. Fu il vino che fece innamorare Veronelli. E che lo spinse a incoraggia­re i temerari pionieri ad andare avanti; che incuriosì Luigi Moio, da poco rientrato dalla Francia, carico di conoscenze come nessun altro nella regione, al punto da accettare di diventare il padrino della riscoperta degli storici vitigni borbonici di Terra di Lavoro. Ne è passato di vino sotto i ponti, da allora. E io brindo a quei ricordi indimentic­abili col Fontanavig­na 2019: morbido, fresco, elegante, minerale, con una carretta di frutta esotica e non. L’ho bevuto su una corvina all’acqua pazza. E non avrei potuto bere meglio.

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