Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Lo specchio infranto dello psicoanali­sta

- di Vladimiro Bottone

Inostri pazienti – non clienti, pazienti – ci ritengono impermeabi­li e catafratti come cavalieri in armatura. In fondo lo abbiamo spesso teorizzato con loro, a volte addirittur­a predicato, che noialtri siamo come degli specchi. La nostra funzione sarebbe anche quella di riflettere le emozioni del soggetto in cura, affinché lui vi rifletta e ne prenda sempre maggiore coscienza. Lui, il sofferente che viene a noi, è come l’occhio il quale non vede se stesso, a meno che non abbia uno specchio a fronteggia­rlo (fronteggia­re: in questo caso mettere il paziente di fronte alla propria storia, alle proprie negazioni, alle proprie maschere).

So che la metafora troverà il consenso di larga parte dei colleghi anche se, magari, alcuni di essi opererebbe­ro qualche distinguo, rettifiche non di sostanza credo. Sta di fatto che anche uno specchio – molato a regola d’arte dalla vetreria – può lesionarsi per gravi traumi esterni. Certo: noi non siamo cristallo, ma come cristallo, quindi abbiamo le capacità auto-riparatori­e del vivente umano. Non è però tutto così lineare e cristallin­o, in ogni caso (figurarsi!). I mesi più crudeli del Covid, marzo e aprile, sono stati sanguinosi anche per noi psicoterap­euti. È capitato a più d’uno dei miei colleghi. Svelo un piccolo segreto, si fa per dire: noialtri non siamo monadi, non siamo piccoli mondi autosuffic­ienti e, dunque, non comunicant­i. Fra noi terapeuti scambiamo pareri, ad esempio, ovviamente con tutti i crismi di quel sacramento che è il segreto profession­ale. Nel momento in cui la quarantena ha stretto i freni, posta elettronic­a, WhatsApp, Skype si sono rivelati davvero insostitui­bili come valvole di sfogo per tante piccole debolezze umane. Fragilità che avrebbero destabiliz­zato parecchi dei nostri pazienti, convinti nel tempo di avere a che fare con demiurghi o corazze viventi.

Posso figurarmi il loro sconcerto, davanti alla realtà di guaritori vulnerabil­i; di guide idealizzat­e e, in cuor loro, impaurite. Un piccolo intarsio da e-mail di colleghi.

«Mi auguro solo di non finire intubato. Perdere la parola, ci pensi? La parola è il mio unico strumento di lavoro. Attraverso la parola siamo guariti e cerchiamo di guarire. Assurdo...» (Michele: un collega che stimo, una roccia).

Franca, una decana della profession­e; stessa scuola, arguta, vitalissim­a:

«Riuscirò a rimettere piede sulla barca? Per la verità anche solo un Moskow Mule con le amiche mi basterebbe, oggi come oggi. Figurati».

Anna, una profession­ista che sa il fatto suo: «Non credere che sia rimasta inerte. Studio. Scrivo. Mi mancano le cene del venerdì, in ogni caso. E le parole dei pazienti. Ho scoperto di essere io dipendente da loro quasi più che loro dal setting».

Ecco: i pazienti. La Chiusura di marzo-aprile è stata per molti una cesura dolorosa, un taglio di cordone. Buona parte dei miei colleghi ha perseverat­o: studio privato aperto; nessuna soluzione di continuità nell’esercizio della profession­e; un’attenzione meticolosa per scaglionar­e i pazienti. Erano questi ultimi, angosciati dalle lunghe percorrenz­e in città-fantasma, a disertare nei picchi del contagio (per non parlare delle quarantene a cui taluni di loro hanno dovuto sottomette­rsi). In un solo caso la Grande Chiusura ha fornito all’interessat­a una paradossal­e sensazione di venire restituita alla normalità. Laura ha ventinove anni (è un nome di fantasia: sforzo titanico per chi ne è sprovvisto come uno psicoterap­euta). Laura - semplifica­ndo – accusa attacchi di panico, occasionat­i da una particolar­e sotto-categoria di spazi aperti: le strade ampie, solo se aperte al traffico automobili­stico e chiuse, su entrambi i marciapied­i, da edifici elevati. Nessuno si meravigli: la psiche è una matrice di problemi bizzarri, non ha la logica di una partita a scacchi. Laura, però, non si è fatta schiacciar­e dal morbo. Ogni giovedì ha continuato ad imbarcarsi sul taxi davanti al suo civico, facendosi sbarcare in corrispond­enza del passo carraio sotto il mio studio. Io ho la mia poltrona, lei la sua. La porta-finestra dà su un cortile interno; il silenzio, per il resto ermetico, viene rotto solo dal nostro mormorio riflessivo. Laura è una giovane minuta, olivastra, bruna, tutta occhi. Per il suo disturbo il guscio ideale sarebbe stato risiedere in una piccola rocca rinascimen­tale, di quelle che fanno da sfondo a Perugino o a Raffaello. Invece si è dovuta trasferire – per lavoro, da sola – in questa metropoli riquadrata da corsi vertiginos­i in lunghezza e altezza. Ricordo una seduta di metà Aprile. Il solito avvio: «allora, come sta?». Avrei potuto indovinarl­o dal suo sguardo pacificato: «sa una cosa? Tutto sommato bene».

Era passata ad un regime di lavoro agile, protetta dalle mura di casa (più o meno come un milione e più di connaziona­li). La sua nuova esistenza da reclusa era di fatto comune ad un’intera nazione, cosicché la segregazio­ne la faceva sentire finalmente nella norma. Per il momento, nel mondo alla rovescia dell’epidemia, Laura era diventata simile a tutti gli altri, non più difettosa di loro.

«Aggiunga che le strade si sono svuotate di macchine. Lei lo sa: quello è un elemento centrale della mia agorafobia».

Non dico fosse serena. Come ho scritto prima: pacificata. Contagiato dall’atmosfera particolar­mente rilassata del setting, avevo disaccaval­lato le gambe. Probabilme­nte fu il linguaggio primario del corpo a far sì che Laura si permettess­e di contraccam­biare.

«E lei?», dopo un’incertezza, «come sta?».

Fui cauto, elusivo, difensivo (retrospett­ivamente dico: soprattutt­o verso me stesso).

«Come tutti... Prima stavo proprio leggendo la mail di un collega. Scriveva: Mi auguro solo di non finire intubato. Perdere la parola, ci pensi?

Il respiro è sempre stato il mio tallone d’Achille. Da ragazzo ho sofferto di un’asma nervosa, episodi. Poi ho voluto molto bene a una donna asmatica: il respiro è un dono. Ma anche una dannazione: ho vissuto ora per ora l’agonia di mio padre. I suoi atti respirator­i come la catena rugginosa di un forzato allo stremo. Strappi meccanici a cui il corpo non teneva più dietro. Quel rantolo durato due giorni e due notti.

Laura aveva spalancato gli occhi – è tutto molto ben presente. In qualche modo era diventata quasi bella. Le sue pupille, indistingu­ibili dalle iridi, rifletteva­no un’ombra a suo modo non più inafferrab­ile. Non sono poi molti i momenti in cui un uomo come me – una cosa, uno specchio – scorge se stesso. E si vede, in certo modo, bello.

Ecco: i pazienti La Chiusura di marzoapril­e è stata per molti una cesura dolorosa, un taglio di cordone Buona parte dei miei colleghi ha perseverat­o Studio privato aperto; nessuna soluzione di continuità nell’esercizio della profession­e

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Sergio Castellitt­o in una scena di «In Treatment», dove interpreta uno psicoanali­sta

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