Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Lo specchio infranto dello psicoanalista
Inostri pazienti – non clienti, pazienti – ci ritengono impermeabili e catafratti come cavalieri in armatura. In fondo lo abbiamo spesso teorizzato con loro, a volte addirittura predicato, che noialtri siamo come degli specchi. La nostra funzione sarebbe anche quella di riflettere le emozioni del soggetto in cura, affinché lui vi rifletta e ne prenda sempre maggiore coscienza. Lui, il sofferente che viene a noi, è come l’occhio il quale non vede se stesso, a meno che non abbia uno specchio a fronteggiarlo (fronteggiare: in questo caso mettere il paziente di fronte alla propria storia, alle proprie negazioni, alle proprie maschere).
So che la metafora troverà il consenso di larga parte dei colleghi anche se, magari, alcuni di essi opererebbero qualche distinguo, rettifiche non di sostanza credo. Sta di fatto che anche uno specchio – molato a regola d’arte dalla vetreria – può lesionarsi per gravi traumi esterni. Certo: noi non siamo cristallo, ma come cristallo, quindi abbiamo le capacità auto-riparatorie del vivente umano. Non è però tutto così lineare e cristallino, in ogni caso (figurarsi!). I mesi più crudeli del Covid, marzo e aprile, sono stati sanguinosi anche per noi psicoterapeuti. È capitato a più d’uno dei miei colleghi. Svelo un piccolo segreto, si fa per dire: noialtri non siamo monadi, non siamo piccoli mondi autosufficienti e, dunque, non comunicanti. Fra noi terapeuti scambiamo pareri, ad esempio, ovviamente con tutti i crismi di quel sacramento che è il segreto professionale. Nel momento in cui la quarantena ha stretto i freni, posta elettronica, WhatsApp, Skype si sono rivelati davvero insostituibili come valvole di sfogo per tante piccole debolezze umane. Fragilità che avrebbero destabilizzato parecchi dei nostri pazienti, convinti nel tempo di avere a che fare con demiurghi o corazze viventi.
Posso figurarmi il loro sconcerto, davanti alla realtà di guaritori vulnerabili; di guide idealizzate e, in cuor loro, impaurite. Un piccolo intarsio da e-mail di colleghi.
«Mi auguro solo di non finire intubato. Perdere la parola, ci pensi? La parola è il mio unico strumento di lavoro. Attraverso la parola siamo guariti e cerchiamo di guarire. Assurdo...» (Michele: un collega che stimo, una roccia).
Franca, una decana della professione; stessa scuola, arguta, vitalissima:
«Riuscirò a rimettere piede sulla barca? Per la verità anche solo un Moskow Mule con le amiche mi basterebbe, oggi come oggi. Figurati».
Anna, una professionista che sa il fatto suo: «Non credere che sia rimasta inerte. Studio. Scrivo. Mi mancano le cene del venerdì, in ogni caso. E le parole dei pazienti. Ho scoperto di essere io dipendente da loro quasi più che loro dal setting».
Ecco: i pazienti. La Chiusura di marzo-aprile è stata per molti una cesura dolorosa, un taglio di cordone. Buona parte dei miei colleghi ha perseverato: studio privato aperto; nessuna soluzione di continuità nell’esercizio della professione; un’attenzione meticolosa per scaglionare i pazienti. Erano questi ultimi, angosciati dalle lunghe percorrenze in città-fantasma, a disertare nei picchi del contagio (per non parlare delle quarantene a cui taluni di loro hanno dovuto sottomettersi). In un solo caso la Grande Chiusura ha fornito all’interessata una paradossale sensazione di venire restituita alla normalità. Laura ha ventinove anni (è un nome di fantasia: sforzo titanico per chi ne è sprovvisto come uno psicoterapeuta). Laura - semplificando – accusa attacchi di panico, occasionati da una particolare sotto-categoria di spazi aperti: le strade ampie, solo se aperte al traffico automobilistico e chiuse, su entrambi i marciapiedi, da edifici elevati. Nessuno si meravigli: la psiche è una matrice di problemi bizzarri, non ha la logica di una partita a scacchi. Laura, però, non si è fatta schiacciare dal morbo. Ogni giovedì ha continuato ad imbarcarsi sul taxi davanti al suo civico, facendosi sbarcare in corrispondenza del passo carraio sotto il mio studio. Io ho la mia poltrona, lei la sua. La porta-finestra dà su un cortile interno; il silenzio, per il resto ermetico, viene rotto solo dal nostro mormorio riflessivo. Laura è una giovane minuta, olivastra, bruna, tutta occhi. Per il suo disturbo il guscio ideale sarebbe stato risiedere in una piccola rocca rinascimentale, di quelle che fanno da sfondo a Perugino o a Raffaello. Invece si è dovuta trasferire – per lavoro, da sola – in questa metropoli riquadrata da corsi vertiginosi in lunghezza e altezza. Ricordo una seduta di metà Aprile. Il solito avvio: «allora, come sta?». Avrei potuto indovinarlo dal suo sguardo pacificato: «sa una cosa? Tutto sommato bene».
Era passata ad un regime di lavoro agile, protetta dalle mura di casa (più o meno come un milione e più di connazionali). La sua nuova esistenza da reclusa era di fatto comune ad un’intera nazione, cosicché la segregazione la faceva sentire finalmente nella norma. Per il momento, nel mondo alla rovescia dell’epidemia, Laura era diventata simile a tutti gli altri, non più difettosa di loro.
«Aggiunga che le strade si sono svuotate di macchine. Lei lo sa: quello è un elemento centrale della mia agorafobia».
Non dico fosse serena. Come ho scritto prima: pacificata. Contagiato dall’atmosfera particolarmente rilassata del setting, avevo disaccavallato le gambe. Probabilmente fu il linguaggio primario del corpo a far sì che Laura si permettesse di contraccambiare.
«E lei?», dopo un’incertezza, «come sta?».
Fui cauto, elusivo, difensivo (retrospettivamente dico: soprattutto verso me stesso).
«Come tutti... Prima stavo proprio leggendo la mail di un collega. Scriveva: Mi auguro solo di non finire intubato. Perdere la parola, ci pensi?
Il respiro è sempre stato il mio tallone d’Achille. Da ragazzo ho sofferto di un’asma nervosa, episodi. Poi ho voluto molto bene a una donna asmatica: il respiro è un dono. Ma anche una dannazione: ho vissuto ora per ora l’agonia di mio padre. I suoi atti respiratori come la catena rugginosa di un forzato allo stremo. Strappi meccanici a cui il corpo non teneva più dietro. Quel rantolo durato due giorni e due notti.
Laura aveva spalancato gli occhi – è tutto molto ben presente. In qualche modo era diventata quasi bella. Le sue pupille, indistinguibili dalle iridi, riflettevano un’ombra a suo modo non più inafferrabile. Non sono poi molti i momenti in cui un uomo come me – una cosa, uno specchio – scorge se stesso. E si vede, in certo modo, bello.
Ecco: i pazienti La Chiusura di marzoaprile è stata per molti una cesura dolorosa, un taglio di cordone Buona parte dei miei colleghi ha perseverato Studio privato aperto; nessuna soluzione di continuità nell’esercizio della professione