Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Uno, cento, mille Gattuso Ci servono i mediani
Politeia, come i lettori di questa rubrica ben sanno, è decisamente «anti-sarrista». Dunque festeggia la vittoria del Napoli in Coppa Italia con un pizzico di «Schaudenfreude», e cioè di malcelata soddisfazione per il nuovo passo falso della Juve, che perde la sua seconda finale in stagione. E non solo per la tradizionale ostilità che in Italia condividono tutti i non tifosi dei bianconeri (solo sportiva, si intende, che la Juve è una grande società e merita il massimo rispetto, e ci è antipatica solo perché vince sempre).
Ma anche perché, retrospettivamente, il trionfo di Gattuso smentisce quella corrente del tifo napoletano che aveva confuso il calcio con le arti figurative, e la competizione sportiva con un talent show, e per questo aveva messo il lutto quando il tecnico toscano se ne andò, manco fosse la fine del Napoli.
Niente di personale contro Sarri, si badi bene. Se non un po’ di fastidio per qualche tratto retorico da proletario del pallone che il personaggio si concede spesso, come quando a Napoli diceva che non poteva competere per la vittoria perché allenava una squadra con un fatturato minore delle «grandi», lasciando intendere che non dipendeva da lui ma dai soldi e dalla rosa, e ora che ha i soldi e la rosa si lamenta, udite udite, di qualche infortunio, come se le Juventus che ha disposizione non fossero due, e tutte e due da scudetto. Quello che contestavamo non era però l’uomo, ma la ideologia, non Sarri ma il «sarrismo». Vi vedevamo infatti il perpetuarsi di un luogo comune partenopeo che si bea della «bella figura», che si innamora del fatto estetico anche quando questo non corrisponde al fatto concreto, e anzi talvolta lo rende più difficile. Dietro quelli che amavano Sarri per il suo gioco, e in virtù del gioco gli perdonavano l’assenza del risultato, si nascondeva la stessa filosofia che fa dire a tanti di noi per altri problemi: sì va bene, abbiamo un sacco di guai, però vuoi mettere il nostro mare e il nostro sole? Ecco, il sarrismo era l’alibi che faceva digerire anche la sconfitta, la quale non era mai frutto di demerito, ma solo di sfortuna e di macchinazioni del potere.
Niente di più sbagliato. Il successo nel calcio è solo lavoro e organizzazione. Sono caratteristiche che De Laurentiis ha certamente portato in una società storicamente non votata all’efficienza imprenditoriale, e sono le stesse che hanno portato a Napoli, insieme a una generazione di ottimi calciatori, prima la «scommessa» Sarri, e poi la «certezza» Ancelotti. Entrambi non hanno vinto niente, e Gattuso invece sì. E mi sembra la ciliegina sulla torta del mio ragionamento: se c’è un allenatore in Italia, anzi, oserei dire se c’è un uomo di calcio in Italia, per il quale lavoro e organizzazione sono tutto, anche perché nel suo bagaglio tecnico non c’è molto altro, nemmeno quando giocava, quell’uomo è Rino Gattuso: «Una vita da mediano/ a recuperar palloni/ nato senza i piedi buoni/ lavorare sui polmoni...» avrebbe cantato Luciano Ligabue. Ma è proprio per questo che si è rivelato il più adatto a risvegliare una squadra che restava forte ma l’aveva dimenticato. Perché il talento e la qualità non sono nulla senza leadership, impegno, senso di appartenenza, lavoro di gruppo.
Ora le cose stanno così. Il «genio» Sarri, l’inventore del «sarriball», in Italia ha vinto la Coppa Italia di Serie D, nel 2003 con il Sansovino. L’«operaio» Gattuso, il sergente di ferro del calcio tutto cuore e fatica, ha vinto la sesta Coppa Italia del Napoli. È una lezione che la città deve ricordare, perché si può estendere a molti altri ambiti della sua vita civile e sociale. Quello che ci serve sono uno, cento, mille Gattuso. Di artisti ne abbiamo a iosa, ci mancano i mediani.