Corriere del Mezzogiorno (Campania)
LA PAURA E IL BUON SENSO
Se si legge che in Brasile il Covid 19 uccide una persona al minuto e i contagiati sono più di un milione, che nel mondo sono morte più di quattrocentomila persone, che in Italia i decessi sono stati 34.514 (19 giugno), che persino nell’efficiente e previdente Germania i morti sono più di ottomila, che in Cina appare lo spettro di una seconda ondata, la reazione del comune cittadino non può essere che di apprensione, paura, incertezza, prudenza in ogni ambito relazionale, in qualche caso di disperazione. Ma se questi drammatici dati della pandemia fossero messi in relazione con altri dati, forse si raggiungerebbe una più oggettiva e meno ansiogena comprensione del problema. Ne abbiamo bisogno: per riprendere una vita normale, per fare tesoro dell’esperienza e degli errori, per ritrovare una serena consapevolezza del senso della vita e della morte.
Ad oggi, il Coronavirus ha provocato un decesso ogni diciassettemila abitanti del pianeta, con una percentuale dello 0,006 per cento. Se si considera che ogni anno muoiono circa 27 milioni di individui, l’epidemia rappresenterebbe meno dell’1,6 per cento delle cause di morte su base annuale. Nei mesi del lockdown, l’epidemia ha fatto crollare il Pil di tutti i Paesi, distrutto milioni di posti di lavoro, azzerato il turismo e il trasporto aereo, bloccato la vita civile di miliardi di persone, fatto crescere in modo esponenziale nuove povertà, provocato un’impennata di suicidi. Nelle statistiche, inoltre, i decessi per Coronavirus non sono quasi mai relazionati alle concause di morte, cioè alle patologie conclamate oltre al virus, all’età dei deceduti, ai danni collaterali che il lockdown ha provocato: non soltanto, come è evidente, nell’economia, ma anche nella tutela della salute dei cittadini, per la pesante riduzione di analisi, interventi chirurgici, cure oncologiche ed cardiologiche, assistenza alla persona. Soltanto in Italia, si calcola che siano stati rinviati oltre 400mila interventi chirurgici e 11 milioni di analisi da laboratorio. Sempre in Italia, i dati sui decessi e sui contagiati, scorporati per regione, confermano da un lato che i numeri più alti sono riscontrati in Lombardia e nelle regioni del Nord e che, dall’altro lato, i decessi al Sud sono stati addirittura meno rispetto al trend demografico degli anni precedenti. Sarebbe inoltre necessario relazionare i dati sull’epidemia con le differenti misure (e relativi risultati) prese da paese a paese, con l’età e le condizioni sociali dei deceduti, con le condizioni climatiche e il tasso d’inquinamento dei territori maggiormente colpiti. Sono considerazioni che per ora sfuggono a una comprensione globale del problema e su cui discutono (e talvolta si azzuffano) scienziati ed esperti in vari campi.
Molti sostengono che senza le misure di contenimento, i morti sarebbero stati molto di più, soprattutto nelle aree del pianeta (e dell’Italia) in cui le strutture sanitarie non sarebbero state in grado di reggere all’ondata di contagiati. Con il senno di poi, è difficile avere una controprova, ma con il senno di poi è lecito chiedersi se molte vite si sarebbero potute salvare se non fossero stati commessi gravissimi errori di valutazione e gestione del problema: basti soltanto pensare all’ecatombe nelle case di riposo.
Interrogarsi sull’efficacia (o meno) del lockdown, e della sua gestione, ha però un senso se si vuole fare tesoro dell’esperienza vissuta e guardare con serenità al futuro. Occorre prendere atto che misure d’igiene, prevenzione, educazione sanitaria, controlli dovrebbero fare ormai parte della nostra vita, anche nell’eventualità di epidemie future. Ma occorre anche riprendere una vita «normale», non più in balia di uno stillicidio contraddittorio e di divieti, norme, misure preventive in balia di date e capricci di governatori e sindaci. E occorre anche smetterla con i giudizi a geometria variabile sui comportamenti dei cittadini, per cui è «irresponsabile» una festa all’aperto dei tifosi napoletani e non sono più «deprecabili» le spiagge prese d’assalto nelle prime domeniche di libertà.