Corriere del Mezzogiorno (Campania)
SENZA MASCHERA ALLA FASE TRE
Ho tolto la maschera, infilandola in tasca. Un ulteriore passo verso la normalizzazione delle nostre vite. Scomparsi, o quasi, i contagi; non più, o rare, notizie di decessi. Almeno a causa del virus nefando. Perché per altre cause, chiamiamole pure ordinarie, in questi mesi di gente che continuava a morire, in ospedali e in case, ce n’è purtroppo stata. E ce n’é. Quanta? Un lugubre conto che potrà farsi solo a fine di quest’anno bisesto, paragonandone i dati di mortalità a quelli di anni precedenti, estraendo dal totale i decessi attribuiti al Covid. Altro discorso è quante vite siano state sacrificate non direttamente, ma pur sempre a causa del Covid. Perché nei mesi di massima diffusione dei contagi, e conseguente concentrazione di uomini e mezzi per fronteggiare l’epidemia, non è dubbio – e qualsiasi operatore coinvolto nelle estenuanti pratiche ospedaliere potrebbe confermarlo – che gran parte delle patologie non connesse all’epidemia sono state, se non accantonate, certamente ritardate. Non infarti, ictus, fratture; urgenze doverosamente fronteggiate. Ma tuttavia rinviati tanti interventi e controlli. Non solo per minor disponibilità di strutture, ma anche per scelta di pazienti che, timorosi d’accedere a luoghi ritenuti infetti, preferivano un rischioso «fai da te» sanitario. Quante le vittime presumibilmente «indirette»? Dubito si potrà mai quantificarle. Da inesperto mi astengo da comparazioni tra modi e tempi di contrasto all’epidemia seguiti in Campania rispetto a quelli praticati altrove. I raffronti, anche in base all’incidenza di contagi e decessi in rapporto al totale dei residenti e alla densità abitativa (nella fascia costiera superiore alle medie nazionali), lasciano ritenere che dalle nostre parti le cose siano andate meno peggio che altrove. Una struttura sanitaria che, nel suo complesso, presentava vistose carenze in numero di addetti, di letti, di apparecchiature, poteva rivelarsi estremamente fragile all’impatto con l’epidemia che già nelle più attrezzate regioni settentrionali provocava effetti devastanti. Non c’è stato il possibile collasso.
Ovvio che se ne dia merito anzitutto ai medici e al personale sanitario. Un tributo non concesso in passato, anche per motivate ragioni. Al merito generalizzato si sono aggiunti apporti innovativi, dovunque accettati, come la terapia individuata dal napoletano Ascierto.
Qualcuno filmava affollamenti nei vicoli, cercandovi conferma d’atavica anarchia napoletana. Al contrario, s’è constatata la pressoché generale obbedienza ai criteri d’isolamento. E per quante siano state le riserve, motivate o speciose, degli oppositori di destra e pentastellati, la gestione dell’emergenza praticata dal presidente della Regione ha riscosso apprezzamento. Sul fronte del rafforzamento delle strutture ospedaliere e dell’adozione di misure di sicurezza ancor più stringenti di quelle nazionali. Ancorché impopolari, specie nell’ottica del sindaco di Napoli de Magistris che al più presto avrebbe voluto ripopolati i luoghi della movida da lui prediletta. Ecco dunque per Vincenzo De Luca, secondo valutazioni concordi, spianata la strada verso la riconferma nelle prossime elezioni. Più popolare perfino per nuove metafore e invettive aggiunte al suo lessico.
L’estate ci accompagna verso una «fase tre». Con la riconquista del mare che offre momenti liberatori e il festoso ritrovarsi dei giovani. Ma vale tutto ciò ad esorcizzare pensieri inquietanti? Il virus ha prostrato un’economia già languente, privandola del fondamentale apporto del turismo straniero via aereo e via crociere. Quanto tempo occorrerà perché piani di nuove opere in regione e singole città riassorbiranno manodopera? Quanto affinché nuovi redditi o sussidi di vario tipo riattiveranno commerci oggi interrotti?
Pensieri che angosciano ancor più dei timori, pur prospettati, di nuovi contagi. Ci ha dato gioia la conquista della Coppa Italia calcistica. Motivo di festa. In alcune migliaia i tifosi hanno riempito le strade. Temerario? In casi analoghi accadeva in ogni città d’Italia. Purtroppo qualche cialtrone ha compiuto vandalismi; qualche delinquente rapine. Ma non cerchiamone spunti per riaprire dibattiti sull’esistenza d’un fenomeno definibile «napoletanità», presunto marchio peculiare d’un popolo. Son cent’anni e passa che se ne parla e scrive. L’unica peculiarità di cui soffrire è che ad un milione di persone per bene, simili in tutto ad altrettante persone nate in Europa e nel mondo, tocca sopportare convivenza con molte migliaia di malavitosi e un numero forse pari di ignoranti. Ma è problema politico, non etnico!