Corriere del Mezzogiorno (Campania)
La ricetta di Nicolais: più rete per tutti
La velocità degli usurai
Lo avevano immaginato in tanti, e le preoccupazioni erano state urlate vanamente da tutti gli operatori del terzo settore e da esponenti delle forze dell’ordine: la crisi terribile dell’economia avrebbe attirato immediatamente l’attenzione e l’operatività della criminalità organizzata. Ragion per cui, mentre le banche esperiscono le loro indagini come se gli fosse richiesto un intervento in una condizione di normalità e la cassa integrazione si perde in mille ostacoli amministrativi, gli usurai manifestano sensibilità e velocità concedendo prestiti con interessi fino al 275%. Questo emerge dai primi arresti, prestiti per tre milioni di euro a condizioni esorbitanti. Chissà in quanti l’hanno fatta e la fanno franca, continuando a succhiare il sangue della povera gente che sbatte contro il muro dei finti aiuti di Stato invalidati dall’eccesso di burocrazia.
Luigi Nicolais è stato ministro per le Riforme e le Innovazioni nella Pubblica Amministrazione e presidente del Cnr. È il secondo socio dell’Apef, associazione dei professori emeriti della Federico II, con cui il «Corriere del Mezzogiorno» discute gli scenari del post Covid.
Professore, la tecnologia ci ha aiutato durante la pandemia?
«Il problema che abbiamo pagato caro è stato non avere un sistema informatico a copertura dell’intero paese. C’è oggi più che mai la necessità di completare la nostra rete di collegamento della banda larga. Durante il lockdown abbiamo avuto cittadini che potevano interagire con l’esterno attraverso call, videolezioni e così via, e altri cittadini esclusi da tutto questo. Un vero e proprio digital divide tra due classi di popolazione: quelli che hanno accesso alla rete e sono inseriti nel sistema della comunicazione e quelli che non ce l’hanno. In Italia il 30 per cento dei territori è ancora scoperto. Dobbiamo velocizzare».
Eppure ci sono movimenti di protesta contro il 5G, di cui non si conoscono ancora bene gli effetti.
«Credo che siano solo minoranze, magari gli stessi che non vorrebbero nemmeno il telefonino. Non si può resistere all’innovazione. Ci avevano detto che i cellulari erano dannosi e ora eccoci qui dopo venti anni di uso: secondo i più allarmisti dovremmo essere tutti morti di tumore. È chiaro che in ogni situa
”
Il Covid ci ha insegnato che non siamo onniscienti e abbiamo bisogno della ricerca
esistono pro e contro e bisogna avere accorgimenti e prudenza, ma senza fermarci».
Anche nella pandemia sono servite innovazione e ricerca?
«Il Covid ci ha insegnato che non siamo onniscienti. Non sappiamo curarlo e abbiamo certamente bisogno della ricerca, per permettere di sviluppare una conoscenza nuova. E proprio la ricerca ci ha permesso di accelerare l’uscita dall’emergenza, attraverso l’elaborazione di strategie come i test rapidi. Se il virus dovesse tornare non ci troverà impreparati come a febbraio. Ora sappiamo isolare i focolai e presto sono sicuro che avremo il vaccino. Il fatto è che la ricerca è essenziale, anche quando non ne vediamo subito gli effetti e quindi riteniamo che non serva. È fondamentale anche il semplice ampliamento della conoscenza e della ricerca di base».
Eppure la ricerca in Italia viene spesso penalizzata dalla politica, è così?
«Ci sono molti italiani produttori di conoscenza, tra i primi al mondo per produzione di articoli scientifici. La politica dovrebbe convincersi a investire e a trovare gli strumenti per trasformare la conoscenza in avanzamento. Il ministro Manfredi sta portando avanti una politica per aumentare il numero dei ricercatori, numero che attualmente è tra i più bassi d’Europa».
Il Sud in particolare resta indietro?
«Al Sud abbiamo ottime menti ma il loro flusso verso il Nord ci penalizza. E poi c’è una scarsa conoscenza del valore delle nostre università. La Federico II, per esempio, è piazzata benissimo nelle classifiche degli atenei, con alcune aree di livello internazionale. Molti pensano che l’università di Milano sia migliore della nostra ma non è affatto così. Tra l’altro bisognerebbe ragionare per aree».
Tornando al Covid, Milano si è mostrata impreparata sul piano della sanità.
«Milano paga le scelte politiche del recente passato che hanno puntato solo sulla sanità privata e sulle eccellenze specialistiche, penalizzando ospedali e medicina di base, invece necessari nel trattamento diffuso dell’infezione. E poi c’è da aggiungere che al Nord è più diffusa l’abitudine di portare gli anziani nelle case di riposo, che diventano così centri pieni dei soggetti più deboli e meno pronti a reagire. Al Sud questa tendenza non è così diffusa».
Lei crede che gli strumenti oggi a disposizione ci aiuteranno in una eventuale seconda ondata?
«Certo, i test rapidi ormai ci permettono di conoscere in pochi minuti lo stato di salute di un soggetto. Se lo si utilizza ogni paio di settimane il dato è abbastanza sicuro. Anche in Campania molte aziende lo fanno ai propri dipendenti. All’inizio non avevamo idea di come gestire questa malattia, ora ci sono almeno sette-otto tecnologie che ci aiutano».
Tra queste anche l’app Immuni?
«Molti sono preoccupati di cedere i dati personali, secondo me invece non ce n’è motivo. E in Campania sono già entrate in uso app di questo tipo senza problemi».