Corriere del Mezzogiorno (Campania)
La «Calce» che cementa gli affetti
Calce, di Raffaele Mozzillo, è un romanzo affilato, preciso e in assoluto equilibrio. Pubblicato da Effequ, in appena 202 pagine, che solitamente non sono né troppe né poche, riesce a raccontare al lettore un complesso intreccio di personaggi, e ci consegna un’insolita storia familiare, che abbraccia quattro generazioni e che viene ritratta anche da una certa prospettiva sociologica — un vezzo solitamente letale ai romanzi, ma che in questo caso Mozzillo utilizza nel miglior modo possibile: confondendolo con la narrazione, fino a integrarlo e sfumarlo completamente.
La vicenda parte dalla Svizzera, dall’emigrazione della famiglia Coppola negli «anni Sessanta del Novecento. Gli italiani erano brutti sporchi e cattivi. Si diceva che puzzassero e che portassero lo stesso vestito per settimane. Si diceva anche, però, che per andare all’osteria mettessero sempre il vestito buono, il più buono che tenevano... ». Salvatore è un ragazzino italiano, campano, partito dalla provincia di Napoli e insieme a suo padre, Michele, odia gli altri italiani, perché la famiglia Coppola è tra quelle “regolari”, ovvero tra le fortunate che possono condurre la propria vita normalmente, mentre le altre, le “irregolari”, invece, sono formate da «bambini fantasma e dalla loro esistenza claustrale, chiusa in pochi metri quadrati con adulti che uscivano la mattina e tornavano la sera tardi e che, stanchi e spossati, mangiavano e andavano dritto a dormire» — e questo è uno dei tanti meriti di Calce: quello di ricordarci che il razzismo e l’intolleranza sono generati dalla più volgare delle paure, perché si rivolgono molto, troppo spesso alle persone che un po’ ci somigliano, o che ci ricordano chi e come siamo stati, e da cosa, forse inconsciamente, fuggiamo.
La famiglia Coppola, dunque, lavora nell’edilizia ed è dura come i muri che costruisce. È difficile riuscire a immaginare i loro dialoghi domestici e infatti Mozzillo li esclude in toto; Calce n’è sprovvisto, e i suoi personaggi non parlano e non si parlano e questa è una scelta tanto coraggiosa quanto intelligente, perché restituisce con fedeltà quelle dinamiche che altrimenti sarebbero sembrate artefatte. La famiglia lavora e fatti i soldi necessari ritorna nei luoghi natii. Si costruisce un palazzo, con le proprie mani, dove vivranno tutti assieme, per sempre, insieme ai nuclei che i figli costituiranno — e anche con le famiglie dei parenti dei parenti, come nel caso dei genitori di Irina, la bella moglie di Salvatore.
E come spesso succede con i romanzi veri, la vicenda di Calce è piccola, minuscola e quasi scompare se non viene osservata nel dettaglio. Perché un romanzo, appunto, è fatto di tanti piccoli aspetti e vale l’approfondimento dei suoi personaggi. Che nel caso di Mozzillo vengono vivisezionati e guardati attraverso la lente del tempo e il suo trascorrere — perché un altro dei meriti di Calce è di non narrare gli eventi in fila l’uno dopo l’altro, ma d’investigare le reazioni che seguono alle azioni di anche dieci anni prima.
Quindi, è un romanzo, quello di Mozzillo, sì duro e spigoloso, ma raccontato da una voce distante il giusto, compassionevole ma non paternalista. Che cerca di svelare al lettore, con l’assoluta individualità di ogni singolo personaggio, la dinamica, la psicologia, gli affetti e l’incomunicabilità di una categoria forse sociale, di sottoproletari non più poveri materialmente, ma svuotati moralmente, perché privi della parola e quindi anche del pensiero.
E Raffaele Mozzillo non infila a forza i sentimenti dove sarebbero inappropriati o ridicoli, ma si defila e riporta, con precisione e con un certo pudore, la vita e le storie della vita degli altri.