Corriere del Mezzogiorno (Campania)

«Le dieci giornate di Napoli Più fu annientato il corpo più crebbe la mitografia»

Vittoria Fiorelli: «Così diventò l’icona della ribellione al malgoverno»

- di Natascia Festa

Molto deriva dal mito negativo della Spagna sfruttatri­ce

Masaniello ovvero le dieci giornate di Napoli. Vittoria Fiorelli, che insegna Storia moderna all’università Suor Orsola Benincasa, le ha raccontate dalla Rai nella trasmissio­ne «Passato e presente» condotta da Paolo Mieli.

È corretto dire che esistono due Masaniello, uno storico e uno mitico?

«Non solo è lecito, ma è una questione centrale. Il mito di Masaniello è coevo ai fatti, viene costruito dai cronisti che della materia ancora calda facevano racconto. Dieci giorni sono pochi, eppure è in quel breve tempo che si crea l’icona dell’insofferen­za pulita e disinteres­sata nei confronti del malgoverno. E accade in un Regno di Napoli che aveva una posizione periferica: non era il centro dell’Europa di quegli anni».

Ma, sembrerebb­e, lo era già sul piano dell’immaginari­o.

«Sì, è allora che si attiva la tendenza a fare di Napoli un’icona. Se il regno era struttural­mente debole viene investito però semanticam­ente in modo denso e visibile».

Siamo di fronte a un unicum?

«Credo che non ci siano personaggi storici così destoriciz­zati. Certo esistono figure rilevanti che hanno generato una mitografia successiva agli eventi, ma per l’immediatez­za con la quale il “nostro” diventa leggenda possiamo certamente parlare di unicum».

Napoli appena prima della rivolta che città è?

«Molto di quello che ha proiettato Masaniello sulla scena globale viene dal mito negativo della Spagna: il capopopolo ne diventa la contropart­e. È l’alter di una leggenda negra: il malgoverno spagnolo e la reazione popolare si tengono

reciprocam­ente».

Globale? Già?

«Gli imperi ispanici sono il primo esempio occidental­e di globalizza­zione e di scardiname­nto dello spazio acquisito: hanno insegnato agli europei a incontrare il diverso da sé».

Che popolo è quello di Masaniello? Lei lo definisce «aristocraz­ia civile».

«Con Masaniello c’era la Napoli dei seggi, un ceto non basso che nel ‘600 si sta costruendo come contropart­e politica del governo. Lo testimonia il rilievo avuto da Genoino che da tempo lavorava a una progettual­ità di quel ceto intellettu­alizzato, urbano con innesti dalla provincia di avvocati e medici. Questi nella capitale elaborano una consapevol­ezza civile, madre del giurisdizi­onalismo di qualità che fonda la cultura napoletana. Sono loro che, fedeli al re, si

pongono contro il malgoverno e se hanno un problema vanno a discuterlo direttamen­te a Madrid. Il giureconsu­lto Genoino per questa classe che a Firenze si sarebbe detta “popolo grasso”, vuole un riconoscim­ento».

È una pre-borghesia?

«Sì, ma senza l’elemento imprendito­riale»

Il motto di Masaniello era «Viva il re e mora il malgoverno».

«Napoli infatti non era antispagno­la, era Napoli Fedelissim­a e grazie questo titolo non pagava tasse, ma gabelle».

I viceré esageravan­o, però.

«Genoino, infatti, sa che deve far deflagrare la protesta e individua Masaniello che non era uno qualsiasi: a piazza del Carmine era molto rispettato, non era un pescivendo­lo come il padre, ma un mediatore dei “cuoppi” in cui si vendeva il pescato. La moglie gestiva un ricco giro di prostituzi­one e lui era a capo del gruppo che guidava l’assalto al campanile. Si era immaginato, infatti, che in questo rito avrebbe potuto far esplodere la rivolta».

Quello che è successo ha, invece, anticipato il «copione».

«Sì, e Masaniello fu geniale: per 5-6 giorni governa i gruppi di assalto perché ha una visione totale della città e della sua mobilità».

Come un generale?

«Esatto. Un talento napoleonic­o. Poi sopraggiun­ge il “mistero” dell’impazzimen­to, non si sa se per avvelename­nto o perdita di equilibrio psicologic­a:

di fatto Tommaso Aniello non è più lo stesso».

Di lui sappiamo tutto o c’è ancora da indagare?

«La storiograf­ia come scienza è per sua natura revisionis­ta, quindi tutto è possibile ma certo non si spera di ritrovare il suo diario».

Un ruolo importante nell’annientame­nto di Masaniello lo ebbe Andrea d’Avalos. Ora che finalmente l’Archivio della prestigios­a casata è in mano pubblica, si può sperare di trovare documenti illuminant­i?

«L’archivio d’Avalos svelerà meraviglie e non solo in questo caso: speriamo che quanto prima possa essere inventaria­to e consultato. La funzione promotrice e di sintesi che ha avuto il Corriere del Mezzogiorn­o nell’assicurare questo tesoro all’Archivio di Stato testimonia che il giornalism­o che mette in prima pagina la storia è garante della tenuta civile del Paese».

La memoria, appunto: negata è stata quella del Masaniello «storico» senza simulacro né sepolcro: nella chiesa del Carmine c’è una lapide che rimanda a un vuoto.

«Dopo l’assassinio, la rivolta va avanti per un anno nelle campagne, ma sono le dieci giornate in cui s’incarna l’eroe a dare sopravvive­nza a quei fatti. Gli spagnoli hanno temuto che vi fosse la costruzion­e di una santificaz­ione laica che è un rito di popolo analogo al processo di distruzion­e dell’eroe, annientato dalla furia popolare, come sempre accade con i corpi del potere: basti pensare a piazzale Loreto. Quando tutto è compiuto, però, e il corpo non è più visibile, si innesca un’altra ritualità sublimante che viene negata dalla chiesa come per chi moriva in odore di santità. Per questo niente sepolcro, niente simulacro di sepolcro, ma solo una lapide come in una caccia al tesoro del simbolico. Sulla centralità della storia rispetto al mito, come per la più autorevole e insuperata ricostruzi­one della rivolta di Masaniello, bisogna rileggere i testi di Giuseppe Galasso, a partire da Napoli spagnola dopo Masaniello».

 ??  ?? Micco Spadaro, «La rivolta di Masaniello»
Micco Spadaro, «La rivolta di Masaniello»
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy