Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Così ho trasformato i loro pensieri in una canzone
«Cifre. Siamo dei numeri sui fogli». Me lo disse con le lacrime agli occhi una detenuta poche ore dopo che le era stato rifiutato un permesso per vedere i suoi figli. È vero. A volte abbiamo meno considerazione per l’esistenza di chi ha sbagliato. Anche se non siamo abituati a giudicare o puntare il dito. Eppure «indossa le mie scarpe e vedi come si porta questo peso e prova a stare sempre in piedi», mi disse Anna, una ragazza arrestata nella retata per droga al Pallonetto di Santa Lucia in cui spacciavano famiglie intere. A lei è stato tolto un bambino. E non è impossibile capire che è un peso che rischia di farti sprofondare.
Queste parole sono diventate una canzone perché loro potessero farsi sentire e anche perché io e anche Amalia, frequentandole per tanti mesi, ci siamo accorte che nelle loro storie, nei loro umori, nel modo di gioire o di ferirsi, c’erano qualcosa di noi. Assomigliarsi non significa necessariamente condividere dei percorsi. Significa sapere che certe cose ti possono capitare perché sei nato e cresciuto in un posto piuttosto che in un altro o perché ti hanno fatto del male o perché hai conosciuto solo il buio.
In questo viaggio nei penitenziari di Fuorni e di Pozzuoli ho capito concretamente che l’indifferenza ci rende complici. Soprattutto nei confronti di chi si assume la responsabilità di quello che ha fatto, non si perdona e ti fa capire con la vita quello su cui noi possiamo solo astrattamente ragionare. Giusy per esempio, in Caine racconta bene quanto i vantaggi di una vita criminale siano sempre effimeri, non servono a raggiungere alcun tipo di felicità. La fine della storia è sempre la stessa, la cella o la morte. E ci fai i conti sempre e per sempre.
La prima volta che sono entrata in carcere, a Salerno, non sapevo bene cosa avrei fatto insieme alle donne che stavo per incontrare.
La mia predisposizione, da musicista, all’improvvisazione mi ha portato una sana incoscienza utile per raccogliere ed accogliere le loro storie. Loro lo sanno bene quanto sia importante la musica. Lo è per loro, nelle lunghe giornate vuote: quando le ore sembrano non passare mai, la musica le consola e talvolta le riporta alla vita di fuori.
«Io Sono Te» è nata dal titolo, che è anche il ritornello, perché la prima, potente idea che ti investe quando entri in carcere si basa su una domanda: «E se fossi nata io dov’è nata lei? Se questa esperienza di vita fosse la mia?».
Le strofe sono venute fuori attraverso i nostri incontri e dibattiti, in cui ho chiesto alle detenute di provare a scrivere e a raccontare le loro emozioni. E così, quelle parole scritte sui foglietti sono state raccolte e messe in metrica. E’ stato come spogliarci e contare tutti i nostri lividi. E per me cantare con tante voci nuove.