Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Franco Arminio e il prezzo del successo
Da circa tre anni sta accadendo qualcosa d’insolito: un poeta irpino, Franco Arminio, sta diventando popolare. Riempie di lettori le piazze e le librerie di tutta Italia. Di recente non pochi tra critici, poeti e scrittori stanno manifestando in pubblico fastidio per questo curioso exploit, accusando Arminio di scrivere poesie facili e banali.
Da circa tre anni sta accadendo qualcosa d’insolito: un poeta irpino, Franco Arminio, sta diventando letteralmente popolare – in un Paese dove i poeti sono sempre marginali e sconosciuti. Arminio riempie di lettori le piazze e le librerie di tutta Italia, i suoi libri vendono decine di migliaia di copie, giornali e televisioni se lo contendono per interrogarlo sul Sud, sulle aree interne, sui piccoli paesi. Franco Arminio è ormai uno scrittore di successo.
Ma com’è stato possibile che il poeta dell’ipocondria e della morte, dello spavento e dello sfinimento, il girovago smarrito della poetica scienza conosciuta come «paesologia» divenisse di colpo – dopo anni di marginalità letteraria, benché puntellata dagli apprezzamenti di critici e poeti quali Gianni Celati, Emanuele Trevi, Valerio Magrelli e Andrea Cortellessa – una vera e propria star della letteratura italiana?
Tutto comincia, a mio avviso, quando Arminio inizia (prima a Cairano, poi ad Aliano) a creare comunità provvisorie di persone un po’ naufraghe in cerca di un modo più diretto e sincero di vivere le relazioni e i luoghi. Anno dopo anno, aiutato da un uso scoperto e fraterno dei social, Arminio ha creato intorno a sé un mondo sempre più affollato, tanto che durante il Festival di Aliano «La luna e i calanchi», nel remoto paese lucano dov’è sepolto Carlo Levi, arrivano ogni anno decine di migliaia di persone, tutte entusiaste degli eventi musicali e letterari che Arminio riesce a mettere su in una confusione situazionista e vitalistica che ribalta alla radice il concetto di «organizzazione».
Pur esaltando i piccoli paesi, il pubblico che segue Arminio in questi vagabondaggi esperienziali proviene principalmente dalle aree urbane, ed è fatto di persone che sentono un profondo bisogno di fraternità, di sincerità e di semplicità.
Quanto più è cresciuto l’interesse per Arminio, però, tanto più sono sorte diffidenze nei suoi confronti. I paesani (categoria assai distante dai paesologi) hanno iniziato a vederlo come uno che parlava di loro senza essere come loro, mentre gli intellettuali delle città hanno ravvisato nella sua ideologia socio-letteraria elementi come il semplicismo e il populismo, decidendo di rubricarlo come uno scrittore eccessivamente naïf e narcisistico.
Nel 2017 il primo grande successo editoriale: Cedi la
strada agli alberi (Chiarelettere). Poi, a seguire, Resteranno i canti (Bompiani), L’infinito senza farci caso
(Bompiani) e, in ultimo, pubblicato da poche settimane, e già più volte ristampato, La cura dello sguardo. Nuova farmacia poetica
(Bompiani). Quattro libri che hanno smosso centinaia di migliaia di lettori, e che hanno determinato un fatto incontrovertibile: mai nessun poeta nella storia letteraria italiana aveva venduto così tanti libri in così poco tempo.
Da qualche mese però i dissensi e i malumori stanno uscendo allo scoperto, e non pochi tra critici, poeti e scrittori stanno manifestando in pubblico fastidio per questo curioso exploit, accusando Arminio di scrivere poesie facili e banali solo per avere consenso e per consolidare il proprio successo. A queste accuse Arminio ha sempre risposto senza troppi filtri suo social, ma qualche giorno fa, nella pagina dei commenti del «Corriere della sera», ha pubblicato un articolo provocatorio e fieramente orgoglioso intitolato «Cambiare il cielo della letteratura». Un articolo nel quale Arminio ha attaccato frontalmente gli accademici, gli sperimentali e gli scrittori arroganti, ovvero tutti coloro che pensano che la letteratura, per essere «alta», debba per forza essere incomprensibile o intellettualistica. In quest’articolo Arminio ha rivendicato la centralità di uno scrivere breve, chiaro e diretto, perché questo è lo stile che i lettori del nostro tempo prediligono.
Ne è nata una girandola di dichiarazioni contrariate, tanto che a un post molto critico di Stefano Petrocchi, direttore della Fondazione Bellonci (Premio Strega), Arminio ha risposto con toni sprezzanti, tanto da scrivere frasi come «Vi dà fastidio che sono letto senza passare dai vostri premi, dalle vostre stremate cerimonie. [...] Siete un mondo fatuo, un mondo che mai fu vivo e non sarà mai morto». Frasi dure gettate in faccia a un intellettuale protagonista della società letteraria italiana che conta. Poche righe prima, inoltre, Arminio aveva anche scritto qualcosa che alludeva neanche poco velatamente a una questione “di classe”: «Lei non sopporta che per una volta prenda la parola uno un po’ maleducato, uno che parla da un paese sperduto».
Arminio ha dato obiettivamente voce e sguardo a un piccolo mondo marginale, ha fatto delle ipocondrie e delle sperdutezze un momento di confessione liberatoria, ha spinto la letteratura in territori etici come il comunitarismo e la fraternità, allargando il concetto di letteratura.
La cosa strana è che quando Arminio scriveva queste stesse cose senza avere successo – per anni ha pubblicato con editori semi-clandestini – finanche una certa neoavanguardia assai seriosa e severa lo aveva adottato, salvo scaricarlo ai primi sentori di successo popolare. Eppure Arminio non è solo edificante e consolatorio. È vero che spesso parla di amore e di fraternità in maniera un po’ panteistica, ma i grandi temi suoi rimangono ostici e urticanti, e si chiamano solitudine, fallimento, paura, ansia, disperazione, morte. Arminio il dolore lo racconta senza infingimenti, ma le sue parole danno calore, e sanno abbracciare i lettori smarriti che dalla letteratura si aspettano parole calde e fraterne.
È un grande errore accanirsi contro uno scrittore e un intellettuale che ha creato un nuovo modo di guardare alle realtà marginali, al paesaggio minore del Sud, ai miseri meccanismi del corpo e dei nervi. Uno scrittore «di paese» il cui canto è cresciuto dal basso senza nessuna pretesa di divenire potere culturale. Non userò ovviamente la parola «invidia», perché sarebbe una semplificazione disonesta, ma a volte viene il sospetto che tutto quest’accanimento contro di lui qualcosa c’entri proprio con questa mediocre parola.