Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Teatro, quando il regista è un drone
La tappa a Castrovillari dell’Agrupación Señor Serrano Un gruppo innovativo, che a Napoli non è mai venuto Lo strumento indirizza lo sguardo degli spettatori, per esempio sui particolari del plastico di una città
Fra le carenze del Napoli Teatro Festival Italia (e, in genere, della programmazione nei teatri cittadini «impegnati») mi è capitato in più occasioni d’indicare il fatto che non è mai venuta a Napoli l’Agrupación Señor Serrano. Si tratta di una delle più interessanti formazioni nell’odierno panorama internazionale del teatro di ricerca. E mi sembra arrivato il momento di parlarne un po’: perché - mentre, ripeto, l’ormai famoso gruppo catalano a Napoli non è mai venuto - l’ho ritrovato, invece, nella landa sperduta di Castrovillari, ospitato da un festival, «Primavera dei Teatri», tanto eroico quanto povero.
Incontrai per la prima volta l’Agrupación Señor Serrano a Venezia, quando, nel 2015, la Biennale Teatro le assegnò il Leone d’Argento per l’innovazione. In quella circostanza presentò «A house in Asia», uno spettacolo basato sull’individuazione e l’uccisione di Osama Bin Laden da parte dei Navy Seals statunitensi. Ma, ben al di là del plot, il tema profondo che veniva svolto nella circostanza era lo scarto fra la realtà e la riproduzione e/o la manipolazione della stessa; e constatai come ne conseguissero, in perfetta coincidenza con l’assunto, forme che attenevano allo scambio ininterrotto fra la performance dal vivo e il mondo virtuale.
Così, in «A house in Asia» si mescolavano - gestiti dai tre performer in scena (Àlex Serrano, Pau Palacios e Alberto Barberá) come in un puzzle postpop - modelli inscala, sequenze cinematografiche, videoproiezioni in tempo reale e la tecnologia quotidiana rappresentata da macchine fotografiche, smartphone, tablet e videogames. E tale «mélange» si traduceva, al di là dell’assoluta e impassibile padronanza dei mezzi utilizzati, in un’accorata considerazione sul fatto che della storia in generale percepiamo appena i riflessi. Fino a diventare noi stessi dei riflessi.
Le protagoniste assolute erano, insomma, la polimorfia e la polisemia della realtà, nello stesso tempo naturali e indotte. A partire dal fatto che, mentre il titolo si riferiva a una sola casa, l’ultima dimora pachistana in cui Osama Bin Laden si nascondeva insieme con la famiglia, nello spettacolo ne comparivano tre: quella originale di Abbottabad, quella creata dalla Cia in una base militare del Nord Carolina per consentire ai marines di esercitarsi e quella ricostruita in Giordania, dove Kathryn Bigelow aveva girato il film, «Zero Dark Thirty», basato per l’appunto sull’individuazione e l’uccisione dello «sceicco del terrore» da parte dei Navy Seals statunitensi. E mi limito a un solo esempio per dare l’idea di che cosa ne scaturiva.
Mentre sul fondale scorreva il film girato dagli stessi Navy Seals e in cui si vedevano i loro elicotteri da combattimento avvicinarsi alla casa di
Bin Laden, in scena un performer teneva in mano e spostava a mezz’aria un modellino di quegli elicotteri, che veniva seguito dalla videocamera di un altro performer che ne mandava l’immagine a inserirsi fra gli elicotteri veri del film. Era proprio come se vedessimo un’unica ripresa. Solo che si trattava della fusione/confusione di un pezzo di vita e di un ectoplasma digitale.
Dunque, ciò che distingue l’Agrupación Señor Serrano è il fatto che, nei suoi spettacoli, la tecnologia dispiegata sul palcoscenico non è, come di solito accade, un potenziamento o un abbellimento della drammaturgia, ma è essa stessa la drammaturgia. E qui, in «The Mountain»,
tale identificarsi della tecnologia con la drammaturgia investe - nel solco dell’attività precedente della formazione catalana a cui ho fatto riferimento - il tema della verità.
Ecco come gli autori, nel presentare lo spettacolo, annunciano quel tema: «C’è un’immagine ampiamente diffusa che ripercorre la storia delle idee: scalare una montagna, superare tutte le difficoltà per raggiungerne la cima e, una volta lì, poter vedere il mondo «così com’è». Raggiungere la verità e non solo ombre o riflessi. È una bella immagine a tutti gli effetti. Ma è davvero così? Spesso, guardando dall’alto, non si vede altro che nuvole e nebbia che ricoprono tutto o un paesaggio che cambia a seconda dell’ora del giorno o del tempo. Allora, com’è questo mondo? Com’è questa verità? Esiste la verità? È la verità una cima da coronare e basta, o piuttosto un sentiero freddo e inospitale che deve essere continuamente percorso?».
Lo spettacolo aggancia questi interrogativi a tre eventi, che, ovviamente, s’intrecciano fra loro: la prima spedizione (giusto il titolo) sull’Everest, il panico seminato da Orson Welles col programma radiofonico «La guerra dei mondi» e un discorso di Vladimir Putin che, soddisfattissimo di sé, straparla di fiducia e, per l’appunto, verità.
Ebbene, assistiamo - circa questi eventi - a una continua «trasmigrazione» nell’altro da sé. A cominciare da quella di uno dei quattro giocatori di badminton impegnati nella partita che si svolge all’inizio: diventa George Mallory, il primo che, nel 1924, tentò di raggiungere la vetta dell’Everest; e quindi ne assume il corpo, che vediamo prono sulle rocce mentre una ragazza che si autodefinisce Sherpa lo ricopre di neve finta con una bomboletta spray.
In effetti, accadde che Mallory venne visto per l’ultima volta dal campo base quando era a soli 230 metri dalla vetta. Poi venne inghiottito da un banco di nebbia e da quel momento non se ne seppe più nulla. Riuscì a giungere in cima? Che cosa vide da lassù? E che cosa può documentare la verità dei fatti realmente accaduti dopo che il banco di nebbia inghiottì lo scalatore? Ci restano unicamente le riflessioni di Ruth, la moglie di Mallory, a proposito dell’onestà e della tenacia del marito.
Dal canto suo, l’Agrupación Señor Serrano tenta di ricondurre quel mistero alla verità inoppugnabile degli elementi fisici: vedi la «trasmigrazione» per cui nel filmato d’epoca sulla spedizione di Mallory una videocamera a circuito chiuso incunea, poniamo, i primissimi piani delle mani di uno dei performer in azione coperte dai mezzi guanti tipici degli scalatori. Ed è questo, s’intende, solo un esempio di come l’inventiva e la padronanza degli strumenti adoperati si traducano nel predetto identificarsi della tecnologia con la drammaturgia.
Il punto più alto, su una strada del genere, si tocca, poi, quando entra in azione un drone che svolge nel vero senso della parola le funzioni di regista: per esempio, indirizza lo sguardo degli spettatori, che non riuscirebbero a scorgerli date la loro distanza dall’oggetto e le dimensioni dello stesso, su determinati particolari (un edificio, una strada...) del plastico di una città; o emette un potente getto d’aria compressa che ripulisce il tavolato dai volani lasciati dalla partita di badminton, in modo che «Sherpa» possa tranquillamente affermare, così producendosi nel suo bravo «numero» di distorsione della realtà, che si trattava di una partita di baseball.
Inutile, a questo punto, sprecare parole sull’abilità dei quattro performer in scena: Anna Pérez Moya, Àlex Serrano, Pau Palacios e David Muñiz. Piuttosto occorre sottolineare la sequenza conclusiva. I drappeggi del telo che prima avevano simulato le rocce su cui giaceva il corpo inanimato di Mallory si gonfiano, si ergono e finiscono a disegnare perfettamente... sì, «The Mountain», parente stretta della Moby Dick che, come lei, incarna proprio il fantasma irraggiungibile della verità.
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Strumenti
Non sono potenziamenti o abbellimenti della drammaturgia, ma essi stessi la drammaturgia