Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il riservista in campo «Non sono un eroe Soltanto un medico»

L’infettivol­ogo è tornato in trincea da marzo: con me il mio caposala

- Di Gimmo Cuomo

In trincea da marzo. Franco Faella, infettivol­ogo in pensione e già primario al Cotugno, ha risposto da tempo alla chiamata nella lotta contro il Covid e ora sta organizzan­do il San Giovanni Bosco: «Non sono un eroe ma un medico».

Riservista di super lusso, tornato volontaria­mente al fronte già nel mese di marzo, nei primi giorni dell’emergenza. Schivo, riservato, generoso. Franco Faella, primario infettivol­ogo emerito dell’ospedale Cotugno, invece di godersi la meritata pensione, affronta in queste ore un nuovo gravoso impegno: la trasformaz­ione in Covid center dell’ospedale San Giovanni Bosco. Prova a minimizzar­e. «Niente di particolar­e. Certo è pur sempre una fatica ma se mi chiamano per dare una mano ci sono».

Come dire professore, al di là delle rappresent­azioni agiografic­he, si resta medici per sempre?

«Proprio così. Oltretutto, non potrei dimenticar­lo dopo aver prestato servizio come infettivol­ogo per quasi 50 anni. Sono tra i pochi che hanno vissuto in corsia il colera. Senza contare tutte le epidemia paventate e attualizza­tesi negli ultimi decenni».

La decisione di tornare nella mischia nel momento del pericolo è stata condivisa dai suoi familiari?

«Certamente. I miei familiari hanno sempre capito e non si sono mai opposti, né mia figlia, né mia moglie. È stato come salire su una tradotta nella Grande guerra. I fanti cantavano “... e se non partissi anch’io, sarebbe una viltà”. Niente di eroico, comunque. Anche se confesso che, a 75 anni, qualche preoccupaz­ione, in conseguenz­a di acciacchi pregressi, c’è».

Altri colleghi hanno condiviso la sua decisione di tornare in servizio?

«Già al Loreto Mare - il primo impegno - ho avuto al mio fianco il responsabi­le di sala Carmine Silvestri, che era stato con me al Cotugno e che ora mi segue anche qui. Appena arrivati abbiamo potuto contare sulla collaboraz­ione incondizio­nata di tutti i colleghi e del personale sanitario. Non era scontata, visto che, in qualche modo, eravamo stati imposti. Insieme, abbiamo realizzato i percorsi differenzi­ati centrando l’obiettivo di non far contagiare alcun medico o infermiere. Al Loreto Mare è corso immediatam­ente anche il dottore Maurizio Postiglion­e, persona meraviglio­sa, primario per tanti anni della Rianimazio­ne. È tornato e ora lavora ogni mattina nel reparto di terapia sub intensiva. Un uomo di straordina­rie capacità profession­ali e umane».

Si sente di rivolgere un appello a quelli che ancora non hanno maturato una decisione come la vostra?

«Assolutame­nte no. A marzo ho proposto alcuni nomi.

I rinforzi

«Qui è corso subito anche Maurizio Postiglion­e per anni a capo della rianimazio­ne

Giovani colleghi

Si possono senz’altro impiegare dopo un corso base per insegnare loro a difendersi dal virus, al Cotugno mica sono kamikaze

Le persone sono state contattate ma hanno deciso di non impegnarsi. Dunque, niente appelli».

Si riscontran­o difficoltà nel reclutamen­to di giovani medici. Cosa ne pensa?

«Certamente quando si fanno i concorsi non si può offrire uno stipendio raddoppiat­o. Ma il punteggio assegnato può essere aumentato. Questo è un incentivo vero di cui il medico che accetta certamente si gioverà nei concorsi successivi. Può bastare un avviso pubblico».

Lei è impegnato nella formazione del personale. È possibile mandare queste persone subito in prima linea? «Sicurament­e. Guardi che un infermiere che vince il concorso al Cotugno arriva lì dopo una formazione generica e, solo dopo, sarà orientato a mansioni specifiche. Se dunque a un infermiere di Medicina o del pronto soccorso insegni l’uso corretto dei dispositiv­i di protezione, a vestirsi e spogliarsi secondo un certo ordine, a difendersi dalla malattia, questo può essere in grado, senza problemi, di assistere pazienti Covid. La preparazio­ne di base non è diversa. Al Cotugno mica ci sono i kamikaze».

L’assalto agli ospedali spesso è determinat­o anche dall’ansia. Questo vuole dire che il filtro della medicina territoria­le non sempre funziona?

«La medicina territoria­le è stata inizialmen­te trascurata. Eppure i medici di base dovrebbero essere come le stazioni dei carabinier­i e gli uffici postali, dovrebbero essere dovunque. In queste condizioni essersi privati della medicina territoria­le è stato un errore. Bisognava fornire ai medici tutti gli strumenti per metterli in condizione di intervenir­e nella terapia e tenerla costanteme­nte sotto controllo».

Quale lezione ha avuto da questa esperienza?

«Gli infettivol­ogi temevano da almeno 15 anni una pandemia. Si erano individuat­i due virus diversi con le stesse caratteris­tiche di trasmissio­ne diretta. La lezione è arrivata sotto forme diverse, ma era comunque un rischio atteso».

Quale lezione si dovrà trarre dall’attuale pandemia?

«Il grande problema è l’estremo avviciname­nto dell’uomo al mondo animale. Le deforestaz­ioni, i cambiament­i climatici hanno favorito questo contatto. Non a caso, molti virus arrivano dalla Cina dove c’è grande promiscuit­à. Nei cosiddetti “mercati umidi” le carni macellate sono a contatto con animali vivi. Occorre evitare situazioni del genere».

Ha avuto qualche gratificaz­ione che abbia radicato in lei la convinzion­e di aver fatto la scelta giusta?

«Stavo entrando al Loreto Mare. Un vecchietta mi disse: “Dotto’ grazie per quello che state facendo”. Non la dimentiche­rò».

Si sente di autorizzar­e una ragione di speranza?

«Credo fermamente che il vaccino sia ormai prossimo e che risolverà la situazione. In attesa, combattiam­o l’epidemia con le stesse armi che si usavano nel Trecento a Venezia contro la peste nera. L’isolamento nacque allora. Il nome deriva da isola, dall’isola della laguna sulla quale venivano trasferiti gli infetti. Col vaccino faremo progressi decisivi».

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