Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il tramonto della mitteleuropa
Andò porterà in scena «Piazza degli eroi» di Bernhard
Il testo, rappresentato per la prima volta in Italia, è in cartellone al Mercadante dal 2 al 20 dicembre Nonostante il Covid-19, il regista ha deciso comunque di continuare la preparazione dell’allestimento
Cinquanta euro. Tanto mi è costato l’acquisto on line di «Piazza degli eroi» di Thomas Bernhard, che non avevo letto. Quel testo, pubblicato da Garzanti nel 1992 e da allora non più ristampato, oggi si trova solo usato e, per l’appunto, a prezzi d’antiquariato. E anche questo, forse, ha concorso a determinare il fatto che in Italia «Piazza degli eroi» non è mai stato portato in scena. Già in partenza, perciò, va riconosciuto un merito notevole a Roberto Andò, che lo ha scelto per firmare la sua prima regia da direttore del Teatro di Napoli-Teatro Nazionale.
Lo spettacolo è in cartellone al Mercadante dal 2 al 20 dicembre. E sebbene il Covid-19 minacci di sconvolgere qualsiasi piano, Andò ha comunque deciso di portare avanti il lavoro preparatorio dell’allestimento. Un confortante segnale di speranza. Ma, naturalmente, l’importanza dell’evento, che ci auguriamo possa effettivamente realizzarsi, è costituita - ben al di là del debutto italiano di «Piazza degli eroi» - dalla statura dell’autore e dal valore del testo.
«Piazza degli eroi (Heldenplatz)» fu rappresentato per la prima volta, al Burgtheater di Vienna, il 4 novembre del 1988. Si tratta dell’ultimo testo teatrale di Bernhard, che morì, a soli 58 anni, il 12 febbraio dell’anno successivo. E dunque, già per questo potremmo parlarne come del suo testamento. Ma lo è di fatto perché in quel dramma si riassume, e viene spinto al massimo della sua potenza concettuale ed espressiva, l’intero complesso delle motivazioni che hanno segnato l’opera dello scrittore austriaco, collocandolo tra i più grandi dei contemporanei: a partire dal ritorno, in maniera deflagrante, dei temi - in Bernhard perenni e assolutamente centrali - della circolarità coatta dell’esistenza e della vita sentita unicamente come abitudine.
Leggendolo, ho pensato che un sottotitolo adatto sarebbe potuto essere «Marcia funebre per Stradivari». E l’idea mi è venuta considerando l’insistenza con cui il personaggio protagonista, il professore universitario Josef Schuster, chiede alla governante, la signora Zittel, se le piaccia Sarasate, spiegando: «delle persone a cui non piace Sarasate / io non mi fido / sono sempre persone orrende» e, addirittura, «sono individui pericolosi quelli a cui non piace Sarasate».
Lo spagnolo Pablo Martín Melitón de Sarasate y Navascuéz è stato uno dei più grandi virtuosi di violino, e suonò, per l’appunto, con due Stradivari, uno del 1713 e uno del 1724. Questo per dire, giusto, dell’inarrivabile virtuosismo che connota la scrittura di «Piazza degli eroi». E la marcia e la marcia funebre c’entrano l’una per la baldanza sarcastica con cui Bernhard porta avanti la provocazione estrema contenuta nel suo testo e l’altra perché, di fatto, è nella dimensione della morte che si attestano il plot e, soprattutto, i significanti che lo sottendono.
L’azione si svolge nel marzo 1988, esattamente cinquant’anni dopo il discorso con cui il 15 marzo del 1938 Hitler annunciò, nella centralissima piazza viennese del titolo, l’annessione dell’Austria alla Germania. Ma il personaggio protagonista, il citato professor Schuster, non compare mai. Si è ucciso, gettandosi da una finestra del suo appartamento affacciato proprio su Piazza degli Eroi. Ebreo, costretto all’esilio in Inghilterra nello stesso 1938 e rientrato in patria negli anni Cinquanta per riprendere la sua cattedra su invito del sindaco di Vienna, aveva dovuto constatare che la situazione attuale dell’Austria era «molto peggio» di quella di cinquant’anni prima.
Ora - a parlarci di lui, e a rivelarci le sue convinzioni e le sue riflessioni - intervengono, dopo il funerale, il fratello Robert, i figli Anna, Olga e Lukas, la moglie Hedwig, il collega Liebig e sua moglie, il signor Landauer, un ammiratore, la governante di cui sopra e la cameriera Herta. Ed è inutile specificare che le convinzioni e le riflessioni di Schuster delle quali veniamo a conoscenza sono quelle dello stesso Bernhard. A cominciare dall’affermazione esaustiva: «che io sia austriaco / è la mia più grande disgrazia» per arrivare alla precisazione: «a Vienna ci sono adesso più nazisti / che nel trentotto / lo vedrai / come tutto finirà male / per capirlo non c’è mica bisogno / di una mente tanto acuta / adesso stanno venendo fuori di nuovo / da tutti i buchi / che più di quarant’anni fa erano stati tappati / basta che ti metti a parlare con uno qualunque / e non ci vuole tanto / perché salti fuori un nazista».
Ma questo attiene alla sempiterna polemica di Bernhard contro il proprio Paese, e serve solo a spiegare gli attacchi feroci che lo scrittore subì quando apparve «Piazza degli eroi». Poi, però, la visione qui dispiegata diventa puramente e semplicemente apocalittica: «il mondo oggi è ormai un mondo brutto / e un mondo del tutto ottuso / tutto è rovinato dovunque si guardi / tutto è corrotto dovunque si guardi / più di tutto mi piacerebbe non svegliarmi più». Mentre il senso più alto della posizione morale e ideologica di Bernhard viene reso dal passo in cui il professor Schuster dice: «Tutta quanta la famiglia / è passata per Steinhof / ognuno di noi è stato a Steinhof una volta».
Lo Steinhof è la collina di Vienna su cui sorgeva l’ospedale psichiatrico. Viene ripetutamente citato anche in un altro dei più rappresentativi testi di Bernhard, «Ritter, Dene, Voss». E a me non sembra un caso. Mi torna in mente il saggio di Cacciari intitolato giusto «Dallo Steinhof»: da quella collina, osserva Cacciari, «lo sguardo abbraccia il paesaggio degli uomini postumi», quelli (la definizione è di Nietzsche) che «”praticano” la società ma insieme fanno i fantasmi». Insomma, nell’appartamento evocato in «Piazza degli eroi» si aggirano, insieme con quello di Schuster, anche i fantasmi di Musil, Hofmannsthal e Trakl: i cantori supremi della «finis Austriae», ovvero del tramonto della Mitteleuropa, ai quali non indegnamente Bernhard si apparentò.
Che cosa resta, dunque? Resta, ancora una volta, l’affermazione di Caribaldi, il direttore del piccolo circo che, ne «La forza dell’abitudine», da ventidue anni impone a se stesso e ai suoi compagni (il pagliaccio, il giocoliere, il domatore e la funambola) di provare continuamente, senza che siano mai riusciti ad eseguirlo, il «Quintetto della trota» di Schubert. Dice Caribaldi: «Noi non vogliamo la vita, eppure la si deve vivere».
È la battuta decisiva di tutta l’opera di Bernhard. E qui, in «Piazza degli eroi», trova riscontro in quanto a un certo punto Josef confida al fratello: «dopo il mio ritorno non mi è più piaciuto un concerto / Walter Klemperer Kleiber Barbirolli mio dio / sono tutti morti / Son sempre tornato a casa deluso / ma ci andrò sempre lo stesso al Musikverein / finché riuscirò ancora a trascinarmi in giro».
Come si vede, torna la musica, e torna, richiamata dalla musica, la battuta di Caribaldi circa la vita sentita unicamente come abitudine. Perché, in fondo, i grandi scrittori non fanno altro che darsi a infinite variazioni sullo stesso tema. Nel più grande di tutti, Dante, il tema della «Commedia», che è la Trinità, giunge persino a identificarsi con la struttura e la forma del testo: tre Cantiche, trentatré Canti per ciascuna Cantica, strofe di tre versi in terza rima. E quindi, possiamo concludere con un accenno agli echi variegatissimi che destano questo e, in genere, tutti i copioni di Bernhard. Per esempio, penso, adesso, all’Ungaretti di «Sono una creatura». L’Ungaretti che non a caso da un’altra altura, quella di San Michele del Carso - dichiara: «La morte / si sconta / vivendo».