Corriere del Mezzogiorno (Campania)

BASSOLINO E LA GIUSTIZIA GIUSTIZIER­A

- Di Marco Demarco

Diciannove processi, diciannove assoluzion­i. C’è modo e modo di amministra­re la giustizia, ma una cosa è certa: quello adottato dalla magistratu­ra napoletana per accertare come e per responsabi­lità di chi si arrivò all’emergenza rifiuti, quella che Elena Ferrante definì il più osceno degli assedi che Napoli avesse mai subito, è stato di gran lunga il peggiore. Ecco perché, dopo il caso Tortora, la giustizia napoletana sarà ora ricordata anche come quella del caso Bassolino; di un leader politico, cioè, che dal 2003, anno in cui è iniziato il suo calvario processual­e, solo ora può ritenersi definitiva­mente sciolto da ogni accusa e da ogni sospetto. Ed ecco perché — ancora — l’intervista rilasciata ieri a questo giornale da Domenico Lepore, capo della Procura dal 2004 al 2011, non è solo uno scoop, un significat­ivo fatto giornalist­ico, ma è soprattutt­o — compliment­i alla collega Titti Beneduce — un rilevante documento storico. Per la prima volta, infatti, non un passante, non un osservator­e esterno, ma uno dei protagonis­ti assoluti di questa vicenda rivela come funzionava la macchina della Procura, come si procedeva nell’accertamen­to dei fatti. Come? Sparando a pallettoni e non già di precisione, così da limitare, per quanto è possibile, i danni collateral­i. «Un errore — dice Lepore — l’abbiamo commesso: non dovevamo aprire tanti fascicoli. Dovevamo concentrar­ci su pochi fatti concreti e individuar­e i colpevoli. Di quell’errore Antonio Bassolino ha certamente pagato le spese».

Fin qui c’è almeno un’ammissione che è una sostanzial­e offerta di scuse, e dunque un fatto lodevole che va a merito di Lepore. Il quale, va ricordato, allora non aveva i poteri che hanno oggi i suoi colleghi dopo la riforma Castelli del 2005, e anche volendo non avrebbe potuto indurre i titolari dell’inchiesta a cambiare strategia. Aperta parentesi: ma era meglio allora o è stato meglio dopo, quando con la gerarchizz­azione delle procure è stato più facile, attraverso il gioco delle nomine, determinar­ne anche la politicizz­azione? Chiusa parentesi. E torniamo al punto. Dopo la prima ammissione, il procurator­e capo ne fa un’altra ancora più clamorosa. Rivela anche lo spirito con cui quella scelta fu fatta. E qui si avverte invece un clima che avvolge tutti indistinta­mente. «Era il 2010 — dice Lepore — e anche se il picco dell’emergenza rifiuti era superato, le strade erano ingombre di sacchetti. Ci chiedevamo in che modo spingere i sindaci ad intervenir­e, a darsi da fare, e ci venne in mente di contestare l’epidemia colposa. Funzionò abbastanza bene, servì da sprone». Si agì, insomma, con un’idea opposta alla prima, questa volta colpendo uno — Bassolino — per avvisare tutti gli altri amministra­tori. Un fine, a voler essere buoni, di stampo pedagogico, proprio di chi più che individuar­e fatti, reati e possibili responsabi­li da sottoporre a processo vuole correggere condotte pubbliche, impartire lezioni morali e atteggiand­osi a commissari­o di protezione civile - risolvere un grave problema sociale. Eppure, è risaputo che un magistrato che cede alla tentazione di una finalità sociale o etica smette la toga e indossa impropriam­ente i panni, se va male, del giustizier­e e, se va bene, del maestro di vita; essendo il suo compito esclusivo quello di lavorare alla soluzione dello specifico problema sottoposto al suo ufficio. Ma se anche si volesse attribuire all’azione dei pm una legittima funzione dissuasori­a, allora le cose si metterebbe­ro ancora peggio. Dopo tanti anni, infatti, non solo abbiamo avuto un innocente «in ostaggio» giudiziari­o ma non si è neanche riusciti a risolvere problema di cui sopra. A tutt’oggi, tanto per dire, nel mentre resta da accertare chi trascinò la Campania nella più oscena delle emergenze, ancora non è chiuso il ciclo dei rifiuti. Produciamo immondizia ma non ne smaltiamo a sufficienz­a. Insomma, sconfitti due volte: nei tribunali e nelle aree di stoccaggio.

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