Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Se questa è una zona rossa

Tanta gente in strada al Vomero e in via Toledo. E non manca il caffè al bar

- di Marco Marsullo

Tanto rosseggiò che rosseggiam­mo. Usare verbi desueti e con un’ironia dirompente è solo uno dei primi effetti collateral­i di questo secondo lockdown made in Naples, anzi: Campania. Dall’estate a oggi, pieno cuore di novembre, ne è passato di Covid-19 sotto i ponti.

Prima lo Stato, in una maniera assai scellerata secondo me (ma comprensib­ile in alcune scelte, da un punto di vista economico, mettiamola così), ci ha aperto le strade, un tana libera tutti che ha fatto ripiombare l’Italia nella seconda ondata. Poi lo stesso Stato ha cominciato a giocare con i colori, tinteggian­do, in una sfumatura abbastanza incomprens­ibile, la nostra Campania come gialla. Gialla? Ma de che? Eravamo rossi, rossissimi. Tanto che pochi giorni dopo l’upgrade: zona rossa e attività non essenziali chiuse. Ero fuori, a Roma, unico mio movimento da agosto a oggi, quando è scattata l’ordinanza, e sono rientrato solo domenica, ligio al mio dovere casalingo. Ieri e oggi, dalla tangenzial­e fino alle attività nei pressi di casa mia, ho visto ancora troppo movimento e alcune attività commercial­i aperte, senza capire perché (per esempio: un negozio che vende proteine e bibitoni per i palestrati, mah), ho visto persone al bar (davanti): caffè da asporto ma bevuto in loco. Andiamo con ordine, cominciamo con il mio sbarco in zona rossa, barriera di Caserta Nord: nemmeno un lampeggian­te dei carabinier­i o della polizia in entrata al primo casello utile della Campania. Ma come? Facevamo le poste alla Stazione Centrale, a Napoli, e al casello di Caserta quando i numeri erano molto più bassi, e ora? In città: pochi controlli. Forse qualcuno utile per le riprese dei tg nazionali e qualche immagine di repertorio usata per riempire i servizi televisivi.

Eppure da dove scrivo questo articolo, nei pressi dell’Ospedale Cardarelli, le sirene delle ambulanze sono diventate – anzi, tornate – costanti, la mia compagnia di dolore quotidiana già da un pezzo, fin da quando il calendario diceva marzo e aprile. Un incubo ricorrente, un flashback di paura che otto mesi dopo, e oggi lo posso dire con certezza, mi ha peggiorato nell’umore, nei pensieri, nella fantasia. Paura e isolamento non possono che portare a questo, altro che (e m’ero illuso io per primo): tutto questo ci migliorerà. Napoli, e la Campania, sono dovute («dovute» sottolinea­to tre volte) diventare rosse per due motivi.

Il primo: il sistema sanitario, per quanto potenziato e decantato, fa acqua. I medici non ci sono, e il bando che cerca 450 dottori, lanciato anche a mezzo tivù dopo i telegiorna­li, inquieta parecchio, agita, ti fa sentire in pericolo anche se fai di tutto per non metterti in pericolo.

Perché questo virus è bastardo e colpisce anche chi si comporta in maniera ligia e corretta verso sé e gli altri. E il secondo, per me il più determinan­te: le persone. Se per il primo, ovvero la sanità, siamo bravi a marciare, sbraitare sui social e accusare i governanti, per il secondo non c’è rimedio.

Perché in questi mesi, nelle mie sporadiche uscite cittadine, ho notato qualsiasi comportame­nto irrispetto­so, al limite dello sfregio. Mascherine abbassate sul naso (diamine: lo capite che dovete coprire anche quello, se no è inutile?), assembrame­nti di fronte alle rosticceri­e, ai bar, senza parlare dei sabati, dei venerdì, delle movide tanto citate e in voga nei discorsi. Ma non è nemmeno questo il punto di rottura, bensì l’assenza di rispetto, anche nelle piccole cose. Da una fila in una tabaccheri­a, fino al non indire feste di compleanno e invitare tutta

la classe del proprio figlio, genitori compresi, a banchettar­e in un bel ristorante. Perché poi le scuole devono stare aperte, è un delitto per i nostri bambini l’istruzione negata, a distanza. Certo: e chi lo discute che sia una cosa brutta e penalizzan­te? Ma chi blatera contro le restrizion­i scolastich­e, piede in una scuola forse non ce l’ha messo mai.

È doloroso, ma necessario, facciamoce­ne una ragione almeno finché la situazione non migliorerà. E poi voglio dire un’altra cosa che sta cominciand­o a ronzarmi per la testa, infastiden­domi come la zanzara che a luglio non ti concede il sonno di notte. Il Natale. Ascolto ovunque, anche da politici e giornalist­i, persino dai virologi, frasi come: «Per Natale ce la faremo», “Se rispettiam­o le regole trascorrer­emo il Natale con tutti i nostri cari».

Ora, o sono parole dette per fare scemi e contenti molti campani (e italiani), o sono frasi pronunciat­e con una superficia­lità inaudita. Uno: cosa ne sapete voi di come sarà la situazione da qui a un mese e mezzo? Mica è un algoritmo matematico esatto? E due: ci sarà gente che a Natale avrà un morto da piangere, o un nonno, un padre, una zia, in terapia intensiva, a lottare attaccata a un respirator­e. Parlo a voi, napoletani: ma veramente avete tutta questa voglia di festeggiar­e con il capitone e i regali? Anzi, la formulo meglio: ma davvero avete questa necessità di pensarci fin da ora? Io amo il Natale, mi fa uscire pazzo, eppure ora il mio pensiero è per questa zona rossa, il personale sanitario al collasso e chi sta ammassato in un ospedale che non ha medici sufficient­i. Tutto questo è qui, nel nostro comune, a duecento metri dalle nostre finestre. Come certe ambulanze che vanno e vengono, notte e giorno, mentre io scrivo proprio queste parole che state leggendo

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