Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Cuoco e la rivoluzione attiva del popolo
In tempi di lockdown volgere lo sguardo indietro, al nostro passato, serve a trarre indicazioni per il futuro
Ènotizia di questi giorni che il dizionario Collins ha scelto come parola dell’anno “lockdown”, oggi universalmente nota a causa della pandemia. Ma anche nell’economicità linguistica anglosassone, questo termine, che si può tradurre anche con “messa in sicurezza”, riesce a centrare questioni più ampie rispetto al semplice rinchiudersi in casa. Una fra tutte, la funzione di chi governa nella protezione del suo popolo e la relazione che deve esserci tra lo Stato e i cittadini, che in momenti di grande crisi, come quello attuale, rischia di sfaldarsi per il venir meno dell’ordine sociale precostituito.
Questioni che un grande protagonista del pensiero partenopeo, Vincenzo Cuoco, di cui ricorre proprio in questo periodo l’anniversario dei 250 anni dalla nascita, si trovò ad affrontare nel corso della sua carriera di storico, filosofo e uomo politico del Regno di Napoli. Occorre qui ricordarlo perché forse non è peregrina l’idea che talvolta volgere lo sguardo indietro, al nostro passato, serve a trarre qualche indicazione per il futuro. E a evitare che, nel tentativo di messa in sicurezza del Paese, si creino irreversibili catastrofi sociali.
È dal Settecento che lo Stato cominciò ad essere inteso come espressione degli interessi collettivi, e nella cultura napoletana il potere centrale – all’epoca di Tanucci - si presentava già in una logica “contrattuale”, dipendente dalle nuove mentalità sociali. In questa moderna visione dell’esercizio del potere apparve necessario studiare ogni volta, ex novo, quali metodi di governo adottare, dopo aver capito le esigenze della società, per aiutarla a realizzare gli unici valori davvero “oggettivi”: quelli sempre nuovi.
Ebbe inizio così, anche nel Mezzogiorno, quell’ascesa verso il protagonismo sociale, anzi patriottico e popolare, che sfociò in Francia e nel Regno di Napoli in due risultati di segno esattamente opposti, analizzati dal Cuoco. Nella sua riflessione, la nuova sensibilità sociale portò Oltralpe all’alleanza tra gli intellettuali, intesi come i patrioti, e il popolo contro la nobiltà, fino a sfociare nel 1789 nella Rivoluzione “attiva” e borghese, che sterminò una parte cospicua della vecchia classe dirigente, facendone emergere una nuova.
Nel Regno di Napoli, invece, non si trasse dall’esperienza francese “un utile partito”, ossia un valido insegnamento. Qui i già precari vincoli sociali, anziché ricomporsi in un patto coesivo sociale e dialettico, ossia civile, si sfaldarono del tutto; il popolo dopo la fuga del re, «si credette abbandonato da tutti, e fece tutto da sé».
Facendo propria la lezione di Niccolò Machiavelli, l’autore che più influì sulla sua formazione e che egli conobbe per merito del suo maestro Giuseppe Maria Galanti, Cuoco individuò nell’equilibrio, valido ancora oggi, tra le idee - ossia il progetto sociale - e le forze - ossia i mezzi a disposizione - le ragioni del successo di ogni operazione umana.
«Per produrre una rivoluzione - egli scrisse - è necessario il numero e sono necessari i conduttori, i quali presentino al popolo quelle idee, che egli talora travede quasi per istinto, che molte volte segue con entusiasmo, ma che di rado sa da se stesso formarsi».
E quelle idee, che avrebbero dovuto e potuto essere popolari, furono lontane anni luce dalla costituzione naturale del Regno, si volle che fossero fondate su massime astratte, ossia filosofiche, “lontanissime da’ sensi”, mentre sono i bisogni che spingono il popolo alla rivoluzione. In altre parole, uno stupefacente abbaglio era stato alla base del disastro del ‘99: la convinzione cioè che le assemblee dei filosofi, i gruppi sociali più consapevoli potessero fare la rivoluzione pilotandola dall’alto.
Un errore strategico e politico di cui le forze teocratiche, che nel Mezzogiorno avevano supplito nel corso dei secoli alla debolezza della forza politica ossia pubblica, si avvantaggiarono per ripristinare lo status quo, agitando l’odio popolare non contro i nobili o i borghesi, ma contro gli uomini di cultura, contro i compatrioti laici, nella violenta e disastrosa insurrezione sanfedistica in cui fu sterminata la classe dirigente più colta e progredita. Queste furono le ragioni che portarono al fallimento della rivoluzione “passiva” napoletana.
Il Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli di Vincenzo Cuoco, scritto con chiare finalità pedagogiche, resta ancora oggi uno dei capolavori del pensiero politico italiano. Il realismo machiavelliano che lo anima, la centralità dell’educazione pubblica, da cui nascono l’amor di patria e l’orgoglio nazionale, il convincimento che non esiste vera libertà senza prima aver formato uomini liberi, rappresentano ancora oggi i capisaldi di ogni comunità ben organizzata.
Sono riflessioni che nei momenti drammatici dell’attualità interrogano la classe politica e la invitano a non sottovalutare le giuste istanze dei cittadini poiché – come l’autore acutamente osservò - «il popolo è ordinariamente più saggio e più giusto di quel che si crede».