Corriere del Mezzogiorno (Campania)
IL GENIO, LA LEGGE E IL RISCATTO
Ho difeso Maradona per la vicenda familiare (perdendo), contro il Napoli (vincendo) e dinanzi al giudice sportivo (limitando i danni: ebbe la sospensione per sei mesi che era il minimo possibile). Mentirei se dicessi di avere stabilito con lui un rapporto di amicizia. Appartenevamo a mondi troppo diversi. Ma ci fu simpatia, tanta, e reciproca stima.
Per me, ammalato di calcio e del Napoli, egli non era un giocatore, era il calcio. Proprio mercoledì, non sapendo della sua morte, mio genero mi aveva chiesto se lo ritenessi superiore a Pelè. Gli ho detto che Maradona avrebbe indicato anche Di Stefano, che per lui rappresentava il giocatore completo da prendere come esempio (lo potetti conoscere, viaggiando con lui e con il professor Dal Monte, nell’aereo che ci portò in Argentina per il matrimonio). In quell’occasione il professor Dal Monte mi disse che aveva sottoposto Maradona a test, che avevano dato per risultato una capacità di reazione e una prontezza di riflessi quasi feline, quali, nel passato, era stata riscontrata nei «kamikaze» giapponesi. Oltre la tecnica straordinaria, l’agilità e la forza fisica, è stata, credo, questa dote istintiva ciò che lo ha reso diverso dagli altri e grande. Mi diceva: «Non passo mai la palla dove c’è il compagno, ma dove deve stare (a Gattuso fischieranno le orecchie) e la passo velocemente (qui le orecchie fischieranno a Fabian Ruiz)». Mi ripeteva che in campo, se vedeva i compagni in difficoltà, li esortava: «Passatemi la palla che ci penso io». Ma lo faceva senza alcuna supponenza, con affetto. Credo, infatti, che i suoi compagni gli abbiano sempre voluto bene perché fu sempre per loro un amico e mai fece pesare il suo genio calcistico. Amò Napoli e i napoletani e poiché il calcio
era la sua gioia, pensava di darci gioia; ne era davvero convinto. Per lui il calcio era un’eterna rivincita (un bisogno che si portava dentro) e Napoli fu l’habitat ideale per giocare la partita della sua vita.
Più volte, per una sua prodezza o per una vittoria del Napoli, mi ripeteva che era felice per «la gente», che era la sua gente. Era incurante dei suoi affari, che affidava ad altri. Venne a Napoli senza un soldo. Il suo procuratore, che era stato l’amico di infanzia, con cattivi investimenti e altro non gli aveva fatto trovare nulla nelle casse.
Eppure non l’ho mai sentito pronunciare una sola parola contro di lui. Così come non ne ho sentite contro gli avversari che lo avevano maltrattato (in Spagna gli avevano spezzato una gamba) o che continuavano a maltrattarlo. Non sapeva serbare rancore.
Sul finire della sua avventura partenopea mi confessò che, anche se a malincuore, pensava che fosse il momento di andare via perché aveva
dato tutto ciò che era stato nelle sue possibilità (Tapie e il Marsiglia lo volevano). Aveva, credo, il presagio di ciò che sarebbe successo. Mi disse anche che a Napoli c’era chi poteva sostituirlo. Era una giovane che stimava molto: Zola o, come lui lo chiamava affettuosamente, Zolino. Mi chiese di parlarne a Ferlaino. Lo feci, senza successo.
Iddio lo aveva dotato di un immenso talento. Lo sfruttò soltanto in minima parte. Se lo avesse fatto oggi non staremmo a discutere di chi sia stato il giocatore più grande di sempre. Se in ognuno di noi c’è qualcosa di Dioniso e qualcosa di Apollo (come diceva Nietzsche), in Maradona prevalse l’aspetto dionisiaco, che lo ha portato ad essere eccessivo e che lo ha probabilmente condotto ad una morte prematura.
Ma l’eccesso fu la cifra del suo essere. Se tornasse a nascere non potrebbe e non vorrebbe essere diverso. E noi non lo vorremmo diverso.