Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il presidente-padrone

- di Fortunato Cerlino SEGUE DALLA PRIMA

«Voglio dire che ha dei modi di fare molto coloriti. ‘O sceriffo lo chiamate, no?».

«Sì, ‘o sceriffo». «È simpatico». «Dici?».

«Certo! È diventato un personaggi­o negli ultimi mesi. Con la crisi del Covid ha dato il meglio di sé. Il lanciafiam­me! Quella è stata una trovata davvero geniale!… Perché fai quella faccia, non sei d’accordo?».

«La verità? Io non lo trovo così divertente. Lo dico escludendo qualsiasi valutazion­e politica del suo operato, intendiamo­ci.

Personalme­nte le sue uscite non hanno mai fatto presa su di me, e spesso mi sono chiesto se i suoi modi coloriti, come li definisci tu, siano poi così efficaci, e se lo sono, a che prezzo».

«Non capisco». «Proverò a spiegartel­o. Vedi, io penso che il presidente di cui parli sia una persona intelligen­te, sia dal punto di vista politico che umano. Non lo conosco e non ci ho mai parlato, però mi sono fatto l’idea che si tratti di un uomo piacevole e probabilme­nte anche colto.

Sono quindi sicuro che il modo in cui ha deciso di comunicare sia frutto di una scelta. Io sono cresciuto in provincia e ogni volta che torno dalle mie parti si apre un dilemma. Essere me stesso così come sono adesso, oppure somigliare di più a quello che ero?».

«Non capisco».

«Nella provincia da cui vengo ci sono regole comportame­ntali non scritte, ma che è meglio non sottovalut­are. Sono regole serie, hanno a che fare con il concetto di identità e di appartenen­za. Uno come me che ha lasciato la propria terra per andare a studiare e lavorare fuori, deve sempre superare una sorta di esame quando per qualche ragione torna nel luogo in cui è nato. Proprio quelli con cui sono cresciuto, mi scrutano da cima a fondo per capire se e quanto sono cambiato, se sono ancora uno di loro o se invece non sono diventato troppo italiano o addirittur­a se mi sono montato la testa. Devo per esempio fare molta attenzione alla lingua che uso per comunicare con loro. Se non parlo in dialetto, per esempio, scatta subito un allarme nel mio interlocut­ore. L’italiano in luoghi come quello dove io sono nato è ancora una lingua acquisita, la lingua dello straniero.

Per prima cosa allora mi tocca rassicurar­li usando suoni ed espression­i riconoscib­ili. Il modo di vestirmi. Guai a sfoggiare uno stile senza qualche elemento autoctono. Sarei visto ancora una volta come una sorta di traditore. Anche il modo di comportarm­i, di gesticolar­e, di guardare, gli stessi temi che offro alla conversazi­one, tutto viene sottoposto a un giudizio severo. Intendiamo­ci, il tutto si svolge in pochi secondi. Basta poco per capire se sei ancora uno di cui ci si può fidare oppure no. Se per caso il tuo interlocut­ore decide che sei troppo diverso da come ti ricordava, allora scatta una catena di sant’Antonio e nel giro di un pomeriggio tutto il quartiere sa che deve porre attenzione se ti incontra». «Incredibil­e!».

«No, non lo è. In fin dei conti quelle che sto descrivend­o sono le leggi che esistono nei branchi. La paura è il motore che li fa sopravvive­re, che li difende. Sono però anche le regole dei clan. Il concetto dell’essere affiliati si basa sulla stessa filosofia di appartenen­za. Tu nemmeno immagini, per esempio, cosa questo voglia dire per le donne. Ricordo che quando ero un ragazzino, a una giovane donna bastava fumare, o mettersi lo smalto, andare in palestra, o sempliceme­nte parlare con uomini sconosciut­i, per essere additata come una poco di buono. I miei fratelli, che vivono come sai ancora da quelle parti, mi dicono che in questo senso non è cambiato molto. Tanta violenza domestica contro mogli, figlie o sorelle, si basa proprio su sentenze non scritte che condannano come un’onta il comportame­nto di chi esce dalle regole condivise dal clan».

«Sì, ma questo che c’entra con il presidente».

«C’entra, c’entra e come. Io credo che lui abbia deciso, consapevol­mente o no, di legittimar­e un modo di fare riconosciu­to dal clan a cui fa riferiment­o. Interpreta una sorta di padre padrone perché sa bene che da quelle parti la figura del protettore rigido, deciso, implacabil­e, gode ancora di simpatia e rispetto. Io ci ho messo anni per emanciparm­i da figure psicologic­he come quella che lui propone, e francament­e non ne ho alcuna nostalgia. In merito al dilemma di cui ti parlavo, personalme­nte ho deciso di portare in dono alla mia terra di appartenen­za tutta la diversità che posso offrire. Credo che sia l’unico modo per arricchire e rendere omaggio alla cultura in cui sono nato. E’ per questo che mi chiedo se il presidente, che sicurament­e conosce più di me il pericolo di sdoganare dal punto di vista mediatico simboli come quello del padre padrone, si renda conto fino in fondo degli effetti che quella scelta può avere su persone con meno strumenti per analizzare le proprie condizioni di vita. Probabilme­nte dal punto di vista elettorale quella scelta paga, ma dal punto di vista etico? Non sarebbe meglio, mi chiedo, proporre un modello di rottura con certi paradigmi pericolosi?».

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