Corriere del Mezzogiorno (Campania)
La patente di matto Uno strumento pericoloso
Lo psichiatra Corrado De Rosa firma «Italian Psycho», un saggio su follia e politica
Chi sono i «matti»? La risposta cambia a seconda di chi è chiamato a pronunciarla, come spesso accade. Ma stavolta di più. Se non proviene da un tecnico, allora è probabile che lì dove appaia visibile il segno chiaro di una devianza, soprattutto se questa è motivo di attenzione sociale, l’attribuzione della patente di «matto» diventi più concreta. Se a esprimersi è un avvocato durante un processo, la questione assume un tono diverso anche per via delle implicazioni che ne conseguono. Se a pronunciarsi è l’imputato stesso, cambia tutto. Così come cambia se a parlare è la sua eventuale vittima. Oppure se, per esempio, a dover attribuire certificati di «matto» è un dittatore, un capo politico, un medico al servizio di un regime totalitario.
Ciò che appare chiaro è che di questa patente si possono fare usi molteplici, e che le conseguenze sono quasi sempre cruciali. La si può usare per difesa personale, proteggendosi da una sentenza penale. O la si può usare per annientare gli avversari politici, per derubricare le dichiarazioni di un pentito di ‘ndrangheta come le farneticazioni di un folle, per screditare un’opinione scomoda, per delegittimare una tale persona a ricoprire un tale ruolo.
Italian Psycho. La follia tra crimini, ideologia e politica, scritto dallo psichiatra, saggista e romanziere salernitano Corrado De Rosa per Minimum Fax, ci fa capire fin da subito che quando parliamo della patente di «matto» ci troviamo di fronte a un’arma formidabile. Ed è proprio sui suoi molteplici usi, variamente contestualizzati, che si fonda l’impalcatura del libro.
De Rosa ci ha abituati con i suoi libri precedenti a una saggistica fresca ma precisa molto bello Nella mente di un jihadista, pubblicato per i Corsivi del Corriere della Sera, ma anche I medici della camorra (Castelvecchi), Mafia
da legare (con Laura Galesi, Sperling & Kupfer), La mente nera (Sperling & Kupfer), o il suo romanzo L’uomo che dorme (Rizzoli) – sfuggendo alla banalizzazione che non è, come lui ci dimostra, l’unica strada per arrivare a tutti. Ci riesce anche con questo nuovo libro, nel quale esamina da una prospettiva inedita, e fornendo dettagli anche poco noti, casi di cronaca i cui esiti sono stati determinati in grossa parte dall’elemento psichiatrico e dall’attribuzione (o meno) della patente di malato mentale. Dal rapimento di Aldo Moro con la sua diagnosi in absentia al caso di Angelo Izzo, il mostro del Circeo; dai boss malavitosi come Bernardo Provenzano alle personalità letterarie come Pier Paolo Pasolini, passando per i foreign fighters e per il brigatismo: De Rosa sembra a proprio agio sia nell’attualità che nel passato, lontano dai protagonismi – sappiamo, anche se non lo dice, che ha collaborato personalmente ad alcuni dei casi giudiziari trattati nel libro e che ha lavorato a casi di terrorismo, infiltrazioni mafiose, ‘ndrangheta, camorra, serial killer – e riuscendo anche nel difficile compito di offrire una scrittura personale e ben riconoscibile, per nulla appiattita sui soliti registri; una scrittura a cui il comparto della saggistica (talvolta anche quello della narrativa, bisogna dire) ci aveva tristemente disabituati e che De Rosa riesce forse a restituirci grazie al suo estro da romanziere.
Insomma, tra racconti di manipolatori e assassini, gente che si finge pazza e altra che della pazzia vuole farsi scudo, questo libro può essere un ottimo riferimento sia per chi desideri affrontare la materia da un punto di vista tecnico, che per chi voglia farsi un’idea di come la psichiatria può produrre esiti diversi – giudiziari, ma anche no – a seconda di chi la maneggia e perché. Dopotutto, la domanda who watches the watchers? oppure, per dirla in latino, quis custodiet ipsos custodes?, è sempre in agguato. Per fortuna.