Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Morelli e Silvati due martiri per il sogno costituzionale
Come nel 1799, nel 1821 il sovrano borbone tornò a Napoli, ancora tra il tripudio del popolo
Il sogno di una monarchia costituzionale nel Regno di Napoli, diventato realtà il 6 luglio 1820 con la concessione della carta da parte di Ferdinando I dopo l’insurrezione degli ufficiali carbonari Morelli e Silvati, appoggiati dall’abate Minichini e poi dal generale Guglielmo Pepe, svanisce nei primi giorni della primavera del 1821. Ancora una volta, come nel 1799, fra il tripudio della popolazione napoletana per il ritorno del sovrano nella capitale. Esito finale del congresso di Lubiana di metà gennaio nel quale le quattro potenze della Santa Alleanza (il Regno Unito, l’Impero Russo, il Regno di Prussia e l’Impero Austriaco) avevano deciso l’intervento armato nella Penisola, con l’invio di circa 50.000 soldati austriaci. Un’operazione richiesta e avallata da Ferdinando I, che il 10 dicembre aveva ottenuto dal Parlamento napoletano l’autorizzazione a partire per Lubiana dopo aver promesso che avrebbe sostenuto la Costituzione e il diritto del re e del popolo napoletano all’autogoverno. Un tradimento che permette alle truppe austriache guidate dal generale Frimont di portarsi ai confini tra lo Stato Pontificio e il Regno di Napoli e prepararsi alla battaglia con l’esercito dei rivoluzionari costituzionalisti comandati da Michele Carrascosa e Guglielmo Pepe.
Dopo una dura resistenza, tra il 7 e il 10 marzo i rivoluzionari, forti di 40.000 uomini tra regolari e volontari, sono sconfitti nella battaglia di Antrodoco (centro in provincia di Rieti ma fino al 1927 nel territorio abruzzese di L’Aquila), da molti considerata come il primo evento bellico del nascente Risorgimento italiano. Di sicuro la nascita di un forte sentimento anti-austriaco in tutta la Penisola.
La vittoria di Frimont, che poi Ferdinando avrebbe nominato principe di Antrodoco, apre le porte della Campania
all’esercito austriaco. L’11 marzo il generale Pepe lascia L’Aquila, l’intero corpo d’armata è ormai disciolto mentre Carrascosa si ritira a sud del Volturno. Il 12 marzo il Parlamento napoletano si dichiara pronto ad accettare le modifiche che re Ferdinando I intenderà fare alla Costituzione. Ma ormai a Napoli si comincia a prendere coscienza che al suo terzo rientro in 22 anni nella capitale, il monarca Borbone farà saltare l’accordo raggiunto nel luglio del 1820. In pochi giorni si chiudono i giochi, perché nulla può l’estrema resistenza a Capua delle truppe costituzionali guidate dal generale D’Ambrosio, costretto il 20 marzo a firmare la cessazione delle ostilità. E si consuma il dramma del generale Guglielmo Pepe, costretto ancora una volta a lasciare il regno e a riparare in esilio prima in
Spagna, poi in Inghilterra e infine in Francia. Prima del rientro in Italia, dove sarà tra i protagonisti della difesa di Venezia nel 1848-49.
Il 24 marzo gli austriaci entrano a Napoli mentre in un Parlamento semivuoto il deputato Giuseppe Poerio, che a inizio anno peccando di eccessiva ingenuità aveva indotto l’assemblea ad accordare il permesso al Borbone di partire per Lubiana, legge una protesta contro l’invasione austriaca e la rottura dei patti. Accuse che gli costeranno care: il 13 aprile sarà arrestato e, sebbene giudicato innocente, il 5 agosto sarà mandato in esilio a Graz.
La repressione ordinata da Ferdinando ed eseguita dal ministro di polizia Capece Minutolo, principe di Canosa, inizia subito. Il 31 marzo con un decreto viene ordinato il disarmo totale dei cittadini. Il 9 aprile è istituita a Napoli la corte marziale per l’applicazione della pena di morte a quanti vengono trovati in possesso di armi. Un premio di 1000 ducati viene promesso a chi arresti i capi della rivoluzione. Il 16 aprile la nuova giunta esamina la posizione di tutti i militari del regno. Il 10 maggio sono destituiti tutti gli impiegati nominati dal governo precedente. Sono vietate le società segrete e libri e pubblicazioni sono sottoposti a regia censura. Il 13 maggio in un pubblico rogo sono bruciati i libri, le stampe, i manoscritti, i giornali e ogni altra pubblicazione ritenuta rivoluzionaria. Tra i sospettati di cospirazione appare anche il giovane Vincenzo Bellini, studente del Real collegio della Musica presso il convento di San Sebastiano di Napoli. Ma grazie a influenti amicizie, ritrattando la propria aderenza ai moti, riesce ad ottenere il condono.
Sono in tanti a doversi rifugiare all’estero, i più tra Inghilterra e Francia. Anche Michele Morelli e Giuseppe Silvati, i due ufficiali che avevano dato il via ai moti nell’estate del 1820, tentano la fuga. Il 10 aprile si imbarcano verso l’Albania ma una tempesta dirotta la loro imbarcazione fino a Ragusa. Raggiungono la Bosnia, poi si dividono e Morelli torna in Italia. Arrestato in Abruzzo viene portato in catene, prima a San Severo, poi a Napoli, dove, l’11 agosto è rinchiuso a Castel dell’Ovo. Durante la prigionia incontra di nuovo Silvati, catturato qualche giorno prima nello Stato pontificio. Il processo inizia nel maggio 1822. Il 20 agosto il pubblico ministero Brundesini accusa Silvati e Morelli di aver cospirato contro lo Stato. Il 9 settembre la Gran Corte speciale condanna a morte trenta ufficiali. Due giorni dopo le condanne per 28 di loro sono in parte modificate in ergastoli e lavori forzati. Non c’è clemenza soltanto per Silvati e Morelli che il 12 settembre 1822 vengono impiccati. Come era accaduto ai martiri della Repubblica partenopea del 1799. E l’abate Minichini? Lui, che era riuscito a scappare in Spagna, condannato a morte in contumacia, trovò rifugio in Inghilterra, dove aderì al protestantesimo e si sposò prima di emigrare negli Stati Uniti, dove morì a Philadelphia nel 1861.