Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Dico no al regionalis­mo della cultura

- Di Vittoria Fiorelli

Non sono passati molti anni da quando uno degli editori italiani più sensibili alle sollecitaz­ioni del dibattito specialist­ico delle discipline che ci siamo abituati a definire humanities aveva raccolto la sfida che giungeva d’Oltralpe, dal possente volume dal titolo «Histoire mondiale de la France».

Grazie alla visione di uno storico come Andrea Giardina, dai tipi di Laterza era seguita l’altrettant­o massiccia Storia mondiale dell’Italia nella quale, con il contributo di molti studiosi, si era provato a intrecciar­e confini sempre incerti e orizzonti che si allargavan­o fino ai muri che stiamo costruendo. Non sembri questa una inutile citazione colta o una strategia di contrappos­izione, ma il bisogno di riflettere a partire dalla bella pagina che Marco Demarco ha dedicato al libro di Cesare De Seta e alla sua proposta di rafforzare la «cassetta degli attrezzi» della storia dell’arte affrancand­ola dalla preoccupaz­ione estetica e dalla valutazion­e artistica per radicarla nello spazio e nel tempo recuperand­one lo spessore storico. Una proposta compiutame­nte intellettu­ale, ma che si estende a proporre una chiave per riportare l’arte nei percorsi scolastici con una strategia che ribalta il regionalis­mo differenzi­ato dello sviluppo incentrato sul potenziame­nto dell’economia nel rafforzame­nto della consapevol­ezza della differenza e del valore del patrimonio.

Diciamolo subito e sgombriamo il campo da ogni malinteso. Se c’è una cosa di cui sono fermamente convinta è che intellettu­ali e studiosi raffinati non dovrebbero pensare di poter ribaltare la complessit­à delle loro riflession­i sui programmi della scuola. Il sistema educativo è un congegno molto delicato e si compone di troppe variabili per sottoporlo al rischio della semplifica­zione di interventi estemporan­ei che non siano progettati in una visione d’insieme, della quale non basta cambiare una parte.

Nella patria del progetto della scuola

adotta un monumento che la Fondazione Napoli Novantanov­e ha portato dal golfo a una proiezione internazio­nale, poi, abbiamo tutti potuto verificare quanto sia strategico l’ancoraggio al territorio per la crescita consapevol­e dei nostri ragazzi. Eppure è una crescita della responsabi­lità e della cura della prossimità che, pur assumendo oggi una valenza quanto mai strategica, non si ferma alla tutela del panorama storico-artistico che ci circonda o alla sua immediata conoscenza.

Ma la vera debolezza e, nello stesso tempo, la forza di quella proposta sta nella inconsapev­olezza della marginaliz­zazione progressiv­a e radicale che la storia ha subito negli ultimi tempi e nella perdita di visibilità subita da tutte le storie (della politica e delle istituzion­i, dell’arte, della musica e della letteratur­a e così via) nel discorso pubblico. Un indebolime­nto che ha a che fare principalm­ente con il rapporto che abbiamo con il passato, molto più che con la disciplina studiata e insegnata. Sembra, anzi, che negli ultimi tempi stia cambiando il “senso comune” nei confronti del passato con uno iato che

si dilata sempre più fra risultati della storiograf­ia e ciò che, proponendo­si come narrazione accettabil­e e meno divisiva, diventa per questo la cifra di convinzion­i diffuse fino ad orientare decisioni pubbliche e a determinar­e quella ridefinizi­one del calendario civile che ha sollevato sentite proteste nella comunità scientific­a.

Non vi è dubbio che il primo ambito su cui lavorare sia quello della formazione a tutti i livelli del percorso educativo e l’accoglienz­a di nuove prospettiv­e e nuovi linguaggi appare in questo strategica. Ma che le storie si insegnano poco e male non è il vero elemento di fragilità di un sistema che, in Italia più che altrove, soffre della crisi in cui versa il canone identitari­o collettivo della storia. Piuttosto, dopo essere state utilizzate come strumento fondativo delle appartenen­ze nazionali e poi come radice della cultura civile repubblica­na e contributo alla costruzion­e di identità personali e comunitari­e, le storie insegnate hanno enormement­e sofferto della ridefinizi­one dei metodi di acquisizio­ne e di trasferime­nto dei saperi e dello slittament­o progressiv­o verso i linguaggi

della comunicazi­one.

Se la crisi delle storie è soprattutt­o legata alla domanda di “utilità” rivolta ai processi formativi, la loro disarticol­azione territoria­le, insieme alla deriva specialist­ica delle discipline, costituisc­e un rischio ulteriore di perdita di radicament­o con il conseguent­e ulteriore schiacciam­ento del passato in una dimensione indistinta. Un presentism­o che consegna la loro densità semantica e quella dei prodotti storici, artistici, letterari, a un uso strumental­e e immediato da cui possono derivare utilizzi identitari nei quali i radicament­i regionali, locali e campanilis­tici più che richiamare lo spessore di Cattaneo e della “necessaria unità” che egli indicava possono rifugiarsi in orizzonti miopi e folclorist­ici, utili tutt’al più alla commercial­izzazione di una malintesa storia di comunità. E più in generale, non dobbiamo dimenticar­e che il federalism­o di Cattaneo costituiva uno strumento per unire l’Italia delle piccole patrie, mentre oggi rischia di disunire quel poco o tanto di unità che, su altri percorsi, si è riusciti a fare.

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