Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Dico no al regionalismo della cultura
Non sono passati molti anni da quando uno degli editori italiani più sensibili alle sollecitazioni del dibattito specialistico delle discipline che ci siamo abituati a definire humanities aveva raccolto la sfida che giungeva d’Oltralpe, dal possente volume dal titolo «Histoire mondiale de la France».
Grazie alla visione di uno storico come Andrea Giardina, dai tipi di Laterza era seguita l’altrettanto massiccia Storia mondiale dell’Italia nella quale, con il contributo di molti studiosi, si era provato a intrecciare confini sempre incerti e orizzonti che si allargavano fino ai muri che stiamo costruendo. Non sembri questa una inutile citazione colta o una strategia di contrapposizione, ma il bisogno di riflettere a partire dalla bella pagina che Marco Demarco ha dedicato al libro di Cesare De Seta e alla sua proposta di rafforzare la «cassetta degli attrezzi» della storia dell’arte affrancandola dalla preoccupazione estetica e dalla valutazione artistica per radicarla nello spazio e nel tempo recuperandone lo spessore storico. Una proposta compiutamente intellettuale, ma che si estende a proporre una chiave per riportare l’arte nei percorsi scolastici con una strategia che ribalta il regionalismo differenziato dello sviluppo incentrato sul potenziamento dell’economia nel rafforzamento della consapevolezza della differenza e del valore del patrimonio.
Diciamolo subito e sgombriamo il campo da ogni malinteso. Se c’è una cosa di cui sono fermamente convinta è che intellettuali e studiosi raffinati non dovrebbero pensare di poter ribaltare la complessità delle loro riflessioni sui programmi della scuola. Il sistema educativo è un congegno molto delicato e si compone di troppe variabili per sottoporlo al rischio della semplificazione di interventi estemporanei che non siano progettati in una visione d’insieme, della quale non basta cambiare una parte.
Nella patria del progetto della scuola
adotta un monumento che la Fondazione Napoli Novantanove ha portato dal golfo a una proiezione internazionale, poi, abbiamo tutti potuto verificare quanto sia strategico l’ancoraggio al territorio per la crescita consapevole dei nostri ragazzi. Eppure è una crescita della responsabilità e della cura della prossimità che, pur assumendo oggi una valenza quanto mai strategica, non si ferma alla tutela del panorama storico-artistico che ci circonda o alla sua immediata conoscenza.
Ma la vera debolezza e, nello stesso tempo, la forza di quella proposta sta nella inconsapevolezza della marginalizzazione progressiva e radicale che la storia ha subito negli ultimi tempi e nella perdita di visibilità subita da tutte le storie (della politica e delle istituzioni, dell’arte, della musica e della letteratura e così via) nel discorso pubblico. Un indebolimento che ha a che fare principalmente con il rapporto che abbiamo con il passato, molto più che con la disciplina studiata e insegnata. Sembra, anzi, che negli ultimi tempi stia cambiando il “senso comune” nei confronti del passato con uno iato che
si dilata sempre più fra risultati della storiografia e ciò che, proponendosi come narrazione accettabile e meno divisiva, diventa per questo la cifra di convinzioni diffuse fino ad orientare decisioni pubbliche e a determinare quella ridefinizione del calendario civile che ha sollevato sentite proteste nella comunità scientifica.
Non vi è dubbio che il primo ambito su cui lavorare sia quello della formazione a tutti i livelli del percorso educativo e l’accoglienza di nuove prospettive e nuovi linguaggi appare in questo strategica. Ma che le storie si insegnano poco e male non è il vero elemento di fragilità di un sistema che, in Italia più che altrove, soffre della crisi in cui versa il canone identitario collettivo della storia. Piuttosto, dopo essere state utilizzate come strumento fondativo delle appartenenze nazionali e poi come radice della cultura civile repubblicana e contributo alla costruzione di identità personali e comunitarie, le storie insegnate hanno enormemente sofferto della ridefinizione dei metodi di acquisizione e di trasferimento dei saperi e dello slittamento progressivo verso i linguaggi
della comunicazione.
Se la crisi delle storie è soprattutto legata alla domanda di “utilità” rivolta ai processi formativi, la loro disarticolazione territoriale, insieme alla deriva specialistica delle discipline, costituisce un rischio ulteriore di perdita di radicamento con il conseguente ulteriore schiacciamento del passato in una dimensione indistinta. Un presentismo che consegna la loro densità semantica e quella dei prodotti storici, artistici, letterari, a un uso strumentale e immediato da cui possono derivare utilizzi identitari nei quali i radicamenti regionali, locali e campanilistici più che richiamare lo spessore di Cattaneo e della “necessaria unità” che egli indicava possono rifugiarsi in orizzonti miopi e folcloristici, utili tutt’al più alla commercializzazione di una malintesa storia di comunità. E più in generale, non dobbiamo dimenticare che il federalismo di Cattaneo costituiva uno strumento per unire l’Italia delle piccole patrie, mentre oggi rischia di disunire quel poco o tanto di unità che, su altri percorsi, si è riusciti a fare.