Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Sgarbi: la storia dell’arte va studiata sul territorio
Lo storico approva l’idea di de Seta «Giusto regionalizzare, specie se si valuta attraverso visite e tour»
Lo propone Cesare de Seta nel suo ultimo libro, La grammatica delle arti (Salerno editore), e la tesi è stata ripresa e spiegata da Marco Demarco sul «Corriere del Mezzogiorno»: lo studio della storia dell’arte va ripensato radicalmente. Del resto questa disciplina fondamentale e formativa (e lo è a maggior ragione in un paese come l’Italia) viene da tempo bistrattata.
Dunque per trovare un nuovo asset si potrebbe organizzare la materia secondo una distribuzione per così dire territoriale. Una sorta di «federalismo» didattico, insomma, in cui la storia dell’arte verrebbe affrontata a ciascuna latitudine in prospettiva diversa, cercando di focalizzare non solo le figure dei grandi maestri che quell’area hanno abitato e che si sono distinti per il loro genio, ma anche l’humus culturale e sociale in cui quei protagonisti hanno trovato fertile terreno di crescita.
«Mi sembra assolutamente sensata l’idea di Cesare de Seta», osserva Vittorio Sgarbi. «Potenziare il patrimonio regionale è un’ottima proposta. Del resto la storia dell’arte si studia davvero solo con le cosiddette gite, cioè andando a vedere i luoghi e i monumenti di persona, dunque fare più escursioni su base regionale potrebbe essere utile, può avere una logica». Per Sgarbi le visite di istruzione sono la chiave di volta del cambiamento, proprio quelle famigerate visite spesso considerate solo un momento ricreativo. Da lì si potrebbe partire per agganciare al territorio lo studio della storia dell’arte.
D’altra parte, su questo giornale, ieri, Vittoria Fiorelli era di altro parere rispetto a de Seta e a Sgarbi, facendo notare che «se la crisi delle storie è soprattutto legata alla domanda di “utilità” rivolta ai processi formativi, la loro disarticolazione territoriale, insieme alla deriva specialistica delle discipline, costituisce un rischio ulteriore di perdita di radicamento». In altre parole il «regionalismo del sapere» potrebbe comportare una fuga verso «orizzonti miopi e folcloristici, utili tutt’al più alla commercializzazione di una malintesa storia di comunità». Del resto spinte leghiste e neoborboniche se ne registrano da tempo. E qualche colpo va a segno. È di tre anni fa il protocollo tra Regione Veneto e ministero per lo studio della storia veneta nelle scuole regionali, che fu annunciato a gran voce da Zaia. Ma Sgarbi frena, nessun allarme: «Non credo che ci sia pericolo di derive localistiche, se l’idea viene bene applicata. Né si rischia di perdere l’identità unitaria, perché l’Italia è ricchissima di intrecci e ogni regione è una piccola Italia in miniatura. Si può iniziare dall’approfondimento delle cose vicine, ma si incontrano per strada percorsi più ampi». Vale a dire? «Giotto e Vasari non sono napoletani ma hanno lavorato a Napoli. Lo stesso vale per Caravaggio, i cui capolavori sono distribuiti da Roma in giù nonostante lui fosse lombardo. Poi si possono approfondire le connessioni tra i luoghi e la committenza. A Napoli basterebbe partire da Capodimonte, dove c’è Luca Giordano ma c’è anche Masaccio, tanto per citare solo due grandi nomi. Non c’è che l’imbarazzo della scelta. E questo approccio ha il merito di sottrarre la storia dell’arte a una eccessiva astrazione. Tutti i limiti del localismo, ripeto, sono superati dalla dimensione dell’arte italiana e questo può aiutare anche a superare i limiti della disciplina».
Non credo che ci sia pericolo di derive localistiche né di perdita dell’identità unitaria
Fiorelli
Proposta che può spingere verso orizzonti miopi e anche folcloristici