Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Ambrosino, l’abilità di raccontare il corpo che lotta
«Leib» è una parola tedesca che definisce il corpo come organismo vissuto e vivente, palpitante e mondanizzato. Un concetto molto diverso da quello espresso, sempre nella stessa lingua, dal termine «korper», usato per intendere il complesso della macchina anatomica o della sua struttura somatica.
Differenze apparentemente sottili, ma in realtà sostanziali, come ben indagato sul piano filosofico dalla fenomenologia di Husserl e Scheler. E alle quali si rifà con grande chiarezza Danilo Ambrosino, che al suo ciclo di 21 opere, curato da Olga Scotto di Vettimo, esposte fino al 30 settembre nelle sale 94 e 95 ai piani superiori del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, regala appunto il titolo di «Leib». Perché al centro della sua indagine, perfettamente coerente con il contesto espositivo del Mann, c’è infatti l’idea di corpi, interi o frammentati, che raccontano storie, che sanno di tragedia, di dolore, di ferite aperte ma soprattutto di lotta per la sopravvivenza. «Quella stessa lotta – spiega l’artista napoletano – da cui sono partito pensando alle immagini dei tanti migranti aggrappati ai gommoni o appena sbarcati, avvolti dalle coperte termiche e in attesa di conoscere il destino della propria esistenza. Ma anche quella, scaturita da un confronto col direttore del Mann Paolo Giulierini, che combattevano quotidianamente i gladiatori di età romana (a cui è dedicata in altre sale un’importante mostra dell’Archeologico), uomini provenienti da altre terre, per lo più resi schiavi, e costretti a combattere nella speranza di sopravvivere a sette scontri letali, per poter poi conquistare l’agognata libertà».
Ed è questa tensione verso una liberazione morale e fisica, che a tratti sembra ricordare le intenzioni dei «prigioni» michelangioleschi, che attraversa tutte le opere esposte, in quei corpi rannicchiati o distesi, in torsione o inginocchiati, in busti simili a statue come in pose simili allo spicco di un volo. «Sono partito – prosegue Ambrosino – da alcuni frammenti (un profilo, una testa, un braccio, una schiena e così via) fotografati, per poi completare a mano il disegno delle anatomie. Poi sovrapposte in stampa su queste superfici lucide in alluminio Dibond trattate con vernici a spruzzo bianche o nere, come usano fare i carrozzieri con le automobili». E che conferiscono al percorso visivo un’alternanza per contrasto fra i due colori neutri, bianco su nero o viceversa, che offrono percezioni molto fotografiche. Con una sola variante, quella dell’oro. «In alcuni lavori – conclude Ambrosino – ho voluto sovrapporre alle figure alcune foglie d’oro, che rappresentano dei “vulnus”, delle ferite aperte, come quelle morali, inferte oggi alla dignità di tanti stranieri scapparti dall’orrore delle guerre nei rispettivi paesi, ma anche come quelle fisiche aperte 2000 anni fa nelle carni dei gladiatori, dolenti ma giunti infine al termine delle loro sofferenze, verso una libertà per la quale, ora come allora, non c’è limite al sacrificio».