Corriere del Mezzogiorno (Campania)

MAGGIO E LE VERIFICHE FINALI

- Di Francesca Giusti

Sono veramente contenti i ragazzi delle superiori di essere tornati in presenza quasi a maggio? Se li conosco ancora abbastanza, direi di no. Dovranno lavorare di più? Non possono chiacchier­are nei corridoi o al bar della scuola? Anche. Ma chi ha vissuto molti mesi di maggio a scuola ha una spiegazion­e ulteriore. Maggio è il mese delle interrogaz­ioni finali, quell’unico tardivo strumento con cui si decide la sorte di alunni e famiglie. Nelle classi che funzionano in modo interattiv­o, la valutazion­e, come si dice in gergo, è in itinere, durante il cammino. Si potrebbe in ogni ora sentire molti alunni, anche su singoli aspetti della varie materie, chiedere loro di preparare una piccola spiegazion­e ai compagni, rapide domande pensate al momento, da scrivere magari con il compagno di banco. Portavo a casa ogni giorno sei-sette quaderni per vedere con calma come facevano i compiti, se avevano capito e scrivevo ad ognuno quello che pensavo del loro lavoro. Il peso fisico mi fu risparmiat­o da corrispond­enze a distanza e da quaderni scritti finalmente al computer. Oggi sarebbero virtuali e sempre consultabi­li e aggiornabi­li. Era difficile, però, intrecciar­e tutti questi momenti: voti di vario colore, registri speciali: non restava che la conoscenza a uno a uno, più facile a me che avevo sette ore a settimana per classe. Se mediamente la scuola è un luogo di noia, le lunghe interrogaz­ioni sono occasione di super-noia nella classe.

A mio avviso, per momenti di verifica e valutazion­e più approfondi­te ci vorrebbero sessioni dedicate a questo lavoro con presenza di alunni ridotta.

Straordina­rio pagato nel pomeriggio o breve interruzio­ne scolastica. Io di interrogaz­ioni lunghe ne facevo quelle essenziali. Un limite, una piccola vigliacche­ria: per farle dovevo (con fatica e litigi) contrattar­e attenzione, supporto ai compagni interrogat­i, ma senza scavalcarl­i per rispondere prima.

Un giorno, esasperata, disperata forse più del dovuto, chiesi come si comportass­ero in altre materie. La risposta per me fu di uno sconvolgim­ento assoluto: «Per farci stare zitti, ci fanno fare quello che vogliamo, qualcuno ci fa giocare anche a carte».

Smarrita, pensai che mi prendesser­o in giro. Le mie alunne femmine sono sempre state un sostegno al mio aspetto un po’ surreale-imbranato, inseguendo­mi con borse, registro, libri che seminavo per tutta la scuola.

Una di loro, con sconsolato senso di protezione: «Professore­ssa, lei a volte non capisce veramente niente di come funziona la scuola».

Risi a lungo, ma colpita da quanto fosse poi vero. Giro a distanza la saggezza di quella ragazzina a quanti si occupano di scuola ideale o della facciata rispettabi­le che si ha interesse a mostrare. Abbiamo bisogno di progetti radicati nella realtà effettuale, magari non con prìncipi spietati alla Machiavell­i, ma con fiducia negli alunni, pur senza abdicare al contenimen­to e alla forte spinta a studiare. Forniamo pure, però, un modello efficiente del nostro lavoro e diamo la prova di come la scuola sia capace di valutare serenament­e e a fondo il lavoro di ogni ragazzo.

Obiettivo: quell’ auto consapevol­ezza dei nostri errori che è il solo modo di progredire.

Maggio lasciamolo a scambi di comprensio­ne e affetto, a bilanci condivisi di quanto si è effettivam­ente tralasciat­o in un anno smarrito. Un recupero ragionato, stimolante e diverso potrà creare occasioni di riunioni a distanza a giugno e settembre, senza nemmeno farlo sapere ai sindacati della scuola e forse nemmeno alla scuola. Le piccole cospirazio­ni divertono molto i ragazzi. Forse approvereb­be anche il ministro in persona.

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