Corriere del Mezzogiorno (Campania)
La storia dell’arte (per esser vera) non sia da manuale
La storia è generale, regionale o monografica? Marco Demarco, discutendo su queste pagine il libro di Cesare de Seta, Grammatica delle arti (Salerno editrice), ha lanciato il sasso nello stagno e, come accade in questi casi, son venuti fuori una serie di cerchi concentrici che sul piano storiografico conducono lo studio dell’arte, come ha detto Vittorio Sgarbi, sul «territorio».
Mentre sul piano didattico conducono ad una sorta di federalismo artistico in cui, dice de Seta, si dia «il giusto peso al particolarismo della nostra storia». Non c’è che dire, si tratta proprio – per usare le parole di Cesare de Seta – di una bella «scrollata all’albero della storia dell’arte». E, infatti, Vittoria Fiorelli, considerando il già non ottimo stato di salute della storiografia, ha messo in luce i pericoli di una regionalizzazione dell’insegnamento della storia dell’arte che potrebbe scivolare verso il campanilismo e il municipalismo, la strumentalizzazione e la propaganda, perdendo di fatto – come è già accaduto nella nostra società della comunicazione in tempo reale – il senso stesso di cosa sia la storia. E, tuttavia, la questione posta da De Seta e colta da Demarco, come da Mirella Barracco, è evitabile? Non appartiene di per sé al lavoro dello storico: sia esso storico dell’arte o della letteratura o della filosofia o della storia «in generale»?
L’arte va meglio delimitata nel suo oggetto d’indagine. È questa l’esigenza che c’è alla base della proposta di de Seta: il bisogno di concretizzare meglio lo studio – ricerca e insegnamento – e uscire dalle cosiddette storie generali con il loro tipico susseguirsi di periodi, correnti e ismi: classicismo, realismo, cubismo eccetera. In questo modo le opere d’arte, anche con l’aiuto delle «scienze umane», sono ricondotte alle relazioni umane, al tempo, allo spazio, ai materiali, alle tecniche e, insomma, alla storia e alle sue strutture in cui vivono e sono gli individui perché – dice de Seta – «Giotto, Caravaggio e Picasso sono funzione di queste strutture, e non viceversa». Ma questa esigenza è nuova o antica? Rimpiazza davvero le storie generali e generiche o crea altro? A ben vendere nella proposta di De Seta si intravede il passaggio dalla «storia generale» o universale alla «storia monografica» o individualizzante che fu messa in luce da Benedetto Croce, da Teoria e storia della storiografia a La storia come pensiero e come azione, sia nell’ambito della storia tout-court sia nella storia dell’arte, della letteratura, della filosofia, delle istituzioni per uscire proprio dal generico e dall’enciclopedismo della cosiddetta storia del «problema unico» o metafisico.
Quella che chiamiamo storia generale o universale è la manualistica, la compilazione, il compendio: una storia che è sempre stata scritta e che continuerà ad essere scritta perché risponde ad un’esigenza didattica. Ma la storia «da manuale» - che può anche essere erudita, biografica, sociale - non è la storia «monografica»: tanto la prima è generica, quanto la seconda è particolare e individualizzante. La seconda nasce proprio per superare la prima e ha, in riferimento all’arte, una dimensione estetico-genetica. Ogni storia dell’arte risponde, in fondo, a questa domanda: come nasce l’opera? La risposta che dà De Seta, sembra di capire, è quella di ricondurre l’opera al suo tempo e al suo ambiente. Un’esigenza che, detta così, è di buonsenso e si lascia accogliere ma che approfondita nasconde in sé una sorta di sociologia dell’opera d’arte che alla fine rischia di ritornare al punto di partenza: alla storia dell’arte da manuale su base regionale. Ecco perché la storia di per sé e non solo la storia dell’arte, al netto della didattica, non può che essere monografica perché è sempre la storia di una passione e di un problema che non sono mai riducibili a schemi o strutture o all’ambiente e rimandano alla libertà umana. Proprio come la storia di una poesia non è riducibile alla letteratura.