Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Sui social bontà H24
Quella della pandemia che ci avrebbe reso migliori (più solidali, empatici e disponibili verso il prossimo) è una partitura per trombone suonata (male) anche da chi ce l’ha messa tutta per dare a intendere di crederci. Che non sarebbe andata in quel modo, d’altronde, era prevedibile, considerato il dissesto economico, la conta dei decessi, la perdita dei posti di lavoro, la crescita esponenziale del divario fra ricchezza e povertà, il diffondersi di nuove patologie psichiche, la reclusione domiciliare poi seguita da libertà provvisoria a fasce colorate, il peggioramento se non il precipitare di malattie ben precedenti il coronavirus dovuto alla sospensione delle terapie per il perdurare del contagio. E si potrebbe andare avanti a lungo.
Se possiamo considerare tramontata questa illusione, però, nel momento di transizione che stiamo attraversando – con il piano vaccinale in moto (pur con le polemiche che lo accompagnano), le attività che pur singhiozzando riprendono, quel poco d’entusiasmo che si percepisce lungo i dehors dei ristoranti – un effetto ritardato di quella leggenda poi smentita dai fatti è il fenomeno dell’istigazione all’opera di bene.
Già mediaticamente in atto da parecchio (tv e giornali non hanno mai lesinato sulla moltiplicazione d’inserzioni volte a chiedere oboli per giuste cause), è con la digitalizzazione di massa e lo strapotere dei social che la promozione di bontà H24 ha raggiunto la sua massima espressione. Ormai non puoi più accedere a internet anche per sapere che tempo fa, senza essere investito da una raffica di richieste di beneficenza corredate da filmati anche lunghissimi, voci fuori campo, musiche tristissime, immagini e aggiornamenti di tragedie bisognose d’interventi da approntare con la massima urgenza.
Questo martellamento incessante finisce – è inevitabile – per creare un paradossale effetto di assuefazione alle immagini più strazianti, anche perché il meccanismo di cattura dello spettatore è quello dell’interruzione.
In rete non c’è quasi più pagina dove, prima di entrare, non si venga intercettati da un messaggio d’incentivazione alla bontà che ritardi, anche solo per qualche secondo, l’accesso al sito che s’intendeva visitare. Un po’ come se, prima di entrare in un negozio, ti trovassi davanti un estraneo che ti taglia la strada e ti chiede di fornire una prova di generosità prima di fare le tue compere.
Un esempio che credo appartenga all’esperienza di noi tutti è quello del bancomat. Provate a recarvi a uno sportello automatico per eseguire una qualsiasi operazione. Ecco la sequenza dei passaggi: infili la carta; appare una schermata con una serie di opzioni; tu scegli quella più comune, cioè il prelievo; ti viene chiesto di digitare il codice segreto; tu lo digiti (il che equivale all’apertura simbolica della tua cassaforte virtuale), e proprio allora, in quel momento riservatissimo e intimo, Paf! Ti appare un’altra videata in cui ti viene chiesta una donazione per giusta causa, e – dettaglio eloquente – con un’alternativa secca, mirata dritta al senso di colpa: «Sì, voglio donare» – «No, non voglio donare». Come a dire che se rispondi di sì (e doni) sei una brava persona; se invece rispondi di no (e devi per forza rispondere sì o no, altrimenti non vai avanti con l’operazione), sei colpevole di mancata generosità. Che tu risponda in un modo o nell’altro, vai comunque via infastidito.
A sabato prossimo.
” Il dono In rete non c’è quasi più pagina dove, prima di entrare, non si venga intercettati da un messaggio