Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Rendiamo permanente «Sisma80»
I significati profondi dell’esposizione di fotografie d’autore a San Domenico Maggiore
Io sono nato a Napoli nel 1986 e mia nonna era di Ariano Irpino. Ho capito che Napoli non era tutto il mondo, che esisteva anche altro, esistenze e persone diverse, e che quindi Napoli era soltanto un pezzo del mondo e non tutto il mondo intero, così: perché mia nonna era di Ariano Irpino. Ho passato molto tempo, anni, ad ascoltare i suoi racconti, a vederla ricostruire la sua infanzia davanti ai miei occhi, con allegria, anche quando mi spiegava le cose più dure, fino a convincermi che non si trattava di far credere ad un bambino qualcosa d’incredibile. E ogni volta arrivava un momento in cui le scendeva un’ombra sul viso, un istante di debolezza, dello sconforto, esattamente quando nella successione dei miei «e poi» continui e inarrestabili si arrivava al penultimo, la cui risposta di mia nonna era: «e poi c’è stato il terremoto»; risposta che segnava, oggi lo so, una frattura insanabile con il mondo di prima. «E poi?», continuavo. «E poi stiamo così, come stiamo», mi rispondeva.
In quel «così, come stiamo» erano comprese le crepe di casa nostra, che correvano dall’angolo del soffitto fino a metà della parete, sui tutti i muri portanti. In quel «così, come stiamo» erano compresi i palazzi murati e abbandonati che restavano in piedi dove le persone non si avvicinavano e quindi erano posti arruolabili per andare a giocare a pallone. In quel «così, come stiamo» era compresa la «ristrutturazione» dei quartieri, i terremotati, lo spostarli da qui a lì, e i figli dei terremotati, che erano bambini incredibilmente poveri, e noi stavamo meglio di loro, avevamo casa nostra, che non era nostra ma del proprietario di casa, ma non potevamo lamentarci, perché c’era chi stava molto peggio.
Insomma, intorno a me c’erano dei segni, delle prove del terremoto avvenuto altrove, nel mondo e dell’esistenza del mondo anche a Napoli; e oggi so che anche a Napoli ci fu morte e devastazione, ma non lo sapevo allora. Il terremoto dell’80, sembrerà assurdo dirlo, con le sue infinite ripercussioni, è stato un modo per far sentire tutti parte dello stesso mondo, per connettere le persone tra loro, al di là del tempo, al punto che anche chi non l’ha vissuto direttamente ha memorie, ricordi e aneddoti, cioè pezzi di vita legati a questo singolo evento, che è stato ben più lungo dei novanta secondi della scossa che lo ha generato.
Dunque, uno di questi sabati strani, con il cielo che non si capisce bene che vuole fare, sono tornato per la prima volta ad una mostra dopo il lockdown del ’20. È una mostra gratuita, come dovrebbe essere sempre, e si tiene nel complesso monumentale di San Domenico, fino alla conclusione del mese di maggio. Si chiama Sisma80 e, ideata e diretta da Luciano Ferrara, raccoglie le foto dell’Archivio Carbone, di Giuseppe Avallone, Massimo Cacciapuoti, Luciano D’Alessandro, Sergio Del Vecchio, Mimmo Jodice, Gianni Fiorito, Fotosud, Guido Giannini, Pino Guerra, Annalisa Piromallo, Pressphoto, Mario Riccio, Toty Ruggeri e dello stesso Ferrara. E come scrive Francesco Romanetti nel catalogo della mostra, «quei giorni e quei mesi possono essere considerati una scuola di fotogiornalismo. (...) Il fotogiornalismo visse una stagione di crescita, forse anche per il suo essere - allora più strutturalmente prodotto artigianale, frutto di intuizione, capacità quasi naturale. (...) Il Mattino di Napoli fu un giornale in prima linea. L’allora direttore Roberto Ciuni scaraventò sui luoghi del terremoto decine e decine di inviati. Svuotò le stanze delle redazioni di Politica, Cultura, Sport - oltre che naturalmente a quelle della Cronaca per arruolare e mandare sul fronte del disastro quanti più giornalisti possibile a raccontare quella tragedia immane, che aveva spezzato il Meridione»; ed ecco spiegato, penso, perché il racconto del terremoto è un racconto in bianco e nero, così come tutte le foto della mostra rivelano. Continua Romanetti: «molti giovani cronisti e inviati ebbero per maestri e punti di riferimento proprio quei fotografi, quel modo di affrontare il mestiere che veniva da un’esperientere za consolidata, ma che mostrò anche straordinaria capacità di evolvere e di rinnovarsi». E il risultato sono queste foto bellissime e diversissime tra loro, che la mostra espone in maniera tale da rendere evidente al visitatore un percorso che comincia con la scossa del 23 novembre 1980 e si dispiega fino alla ricostruzione.
Forse, di D’Alessandro quella che più mi colpisce ritrae il Municipio di Sant’Angelo dei Lombardi, che sembra integro, ad un primo sguardo, ma che oltre la soglia si vede con il soffitto completamente crollato e i detriti che si uniscono e s’incontrano con i restanti della strada, quasi come se le macerie fossero liquide. Tra quelle di Cacciapuoti compare un Alberto Moravia di profilo, che forse ascolta un signore dai capelli grigi, fermo davanti ai resti di un palazzo del tutto crollato, e si vedono spuntare degli infissi e le ringhiere di un balcone, gli stessi infissi e ringhiere che compaiono in quella che è la mia foto preferita di Mimmo Jodice. Una macchina, una vecchia Fiat con dentro, forse, un ragazzo e un signore che si copre il naso e la bocca con un fazzoletto bianco, passa davanti alla devastazione e sopra il tettuccio ha legate due bare scure, quasi nere. E mentre le foto di Ruggieri si concentrano sulle geometrie dei tubi della ristrutturazione, quelle della Piromallo ritornano allo scenario di guerra. Quelle di Fiorito mostrano le proteste a piazza del Plebiscito e quelle di Fotosud di nuovo ritornano agli scenari di guerra, ai profughi, a realtà in cui non siamo più abituati a vederci nelle vesti di protagonisti; in questa alternanza che, intelligentemente, sempre la mostra utilizza per protrarre e, perché no, attualizzare il terremoto e le sue conseguenze nelle nostre vite. In quelle dell’Archivio Carbone si intravedono i primi containers e anche in quelle di Pressphoto si racconta la vita del dopo, nelle città e nei campi di containers. In quelle di Riccio sono presenti Enrico Berlinguer e Antonio Bassolino in visita nell’area del cradi Laviano e in quelle di Avallone c’è quasi uno studio della vita dei ragazzini all’interno del rione Monterusciello, con le sue forme dritte e squadrate, che sembrava suggerire le forme che le periferie del futuro avrebbero assunto. Poi un palazzo distrutto, in mezzo al nulla della campagna, in una foto di Giannini, e i bambini di Ponticelli che, sul finire degli anni ’80, ancora vivono all’ombra delle tende da campeggio, e la sepolcrale bellezza, nonostante tutto, della chiesa di San Pietro a Majella in uno scatto di Del Vecchio, e poi quelle di Luciano Ferrara, che, sempre come scrive Romanetti, «avrebbe poi fatto tesoro di quell’esperienza in anni successivi, documentando conflitti e aree di guerra». E tra queste non c’è la foto più bella, ma quella più giusta, quella che forse sintetizza e dà un testo e un pensiero a tutte le altre: un bambino in piedi sopra il cofano di una macchina, davanti al Palazzo Reale, i capelli che gli cadono sugli occhi e tra le mani un cartello di cartone, che gli copre parzialmente il viso. Sopra ci sta scritto: «167 nella città in periferia la borghesia».
«Napoli», scrive Gargano, sempre nel catalogo della mostra, «ha una grande storia, una grande bellezza, un grande orgoglio. Ma una pessima memoria», ed io penso che sia vera questa contingenza, ma anche che sono troppe le cose da ricordare, i secoli passati, gli schianti e i crolli, troppe le cose che dovremmo avere sempre presenti, davanti agli occhi, e da soli non è semplice. Rendere questa mostra permanente sarebbe importante per la città e per la sua cittadinanza, che non si esaurisce con i confini della città, penso. Renderla permanente perché è vero: il terremoto non si è esaurito. Laura Lieto nel suo contributo scrive che «il terremoto non è solo l’evento storico, che rimane per sempre impresso nella mia memoria psichica e fisica. Il terremoto è un lungo presente». (...) «Il terremoto è un’esperienza dalla violenza molto particolare, un processo a due facce, un Giano bifronte del dolore. È violento nella sua forma concentrata, esplosiva, nello shock sensoriale e cognitivo dei suoi 90 secondi durante i quali stai aggrappato a un muro maestro che ondeggia come una vela sbattuta al vento. Ma è anche una forma specifica di slow violence, di una violenza differita e tanto più pericolosa, che si inabissa nel tempo, nelle pieghe della vita quotidiana, nei comportamenti, nelle prassi politiche. Un lungo presente».