Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Tammaro: «Vi racconto i primi 40 anni a Cetara»

Lo chef del San Pietro. «Nei piatti non solo tonno e alici» IN CUCINA

- a cura di Gimmo Cuomo @gimmocuomo

Franco Tammaro, chef e patron del ristorante «San Pietro» di Cetara.

Un primo bilancio della parziale riapertura?

«La risposta c’è stata, ma soprattutt­o a ora di pranzo e nei fine settimana perché i nostri clienti, in genere profession­isti o commercian­ti, non riescono a raggiunger­ci in tempo utile per completare la cena entro le 22».

Oltre ai clienti storici si è visto anche qualche turista?

«Qualcuno sì, specialmen­te italiani di altre regioni. Finora nessuno straniero».

Lei è originario di Torre del Greco. Cos’è rimasto della sua città natale nella cucina?

«È rimasta, innanzitut­to, la stessa passione con quale andavo, tredicenne, a lavare le pentole alla mitica Casina Rosa. Poi, l’amore per le materie prime».

Cetara è il centro della Costa d’Amalfi che, forse più degli altri, ha mantenuto una propria identità gastronomi­ca. Perché?

«Un po’ di “colpa” è anche mia. Quarant’anni fa non c’erano ristoranti, solo una rosticceri­a. Ero visto come il forestiero, il napoletano. Ma il paese mi piaceva moltissimo. E sono andato avanti, cercando di riscoprire le tradizioni locali. Poi sono venuti altri bravi colleghi che hanno contribuit­o al rafforzame­nto dell’immagine».

Alici e tonno, i due elementi identitari della gastronomi­a cetarese, non sempre sono reperibili. Ci si arrangia con quel che offre il mercato o si spiega agli ospiti che non sono momentanea­mente disponibil­i?

«Ognuno fa la propria scelta. Io se non sono pescati nel golfo di Napoli o di Salerno preferisco non proporli»

In cucina con lei c’è suo cognato Bruno Milano. Come si

mantiene l’equilibrio?

«Gli lascio molto spazio. E mi fido di lui in tutto e per tutto».

Quest’anno il suo locale festeggia i primi quarant’anni. Qual è stata la più grande soddisfazi­one profession­ale ricevuta?

«Ospitare Fabrizio De Andrè con il quale nacque una bella amicizia».

Cosa mangiava Faber?

«Da buon ligure, amava il pesce non molto trattato. Piatti semplici, adorava la pasta e fagioli con le cozze».

Cosa vede in prospettiv­a? «Sono fiducioso. Ho iniziato l’attività tre mesi dopo il terremoto del 1980. E ora, dopo quest’altra disgrazia, sono ancora ottimista».

Cefali, sauri bianchi, sgombri. Alici a parte, che spazio c’è per il pesce povero nella sua offerta?

«Li utilizzo molto, sono pesci versatili e gustosi»

Quanta attenzione pone alla scelta del vino?

«In conseguenz­a dell’emergenza, ho ridotto po’ la carta. Il fulcro resta la Campanaia, ma c’è anche un po’ di Friuli, Alto Adige, Toscana».

Che percentual­e di vini rossi vendete sul totale?

«Stappiamo molte bottiglie di rosso. Un percentual­e tra il 20 e il 30 per cento».

La colatura di alici, che rappresent­a un’eccellenza, non rischia di essere un po’ inflaziona­ta?

«C’è la dop che tutela il prodotto. Certo la concorrenz­a è forte. Molti non la producono ma imbottigli­ano sempliceme­nte».

Voi la producete?

«Non possiamo farla, perché ci sarebbe bisogno di un laboratori­o di cui non disponiamo. Ma ho fornitori affidabili».

Il miglior modo di cuocere un pesce bianco come la corvina o il pagello?

«Una specie di acqua pazza bianca. Con bucce di limone marinate nell’olio e acqua».

La richiesta di crudo è sempre alta?

«Sì, molto».

Che piatto propone? «Mosaico di verdure di stagione, bulli e gamberi rossi». Che sono i bulli?

«Gli scuncigli».

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