Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Anni ruggenti al Grenoble

Quando George Vallet riceveva in via Crispi archeologi, storici e altri intellettu­ali stregati dalla Francia

- Di Giovanna Mozzillo

Per cominciare, un dubbio: è corretto dire che negli anni ’60 George Vallet all’Istituto Francese di via Crispi di cui era direttore teneva un «salotto»? Cioè: è appropriat­a o fuor di luogo l’espression­e «salotto» per definire il tipo di incontri che si svolgevano nel suo appartamen­to al Grenoble?

Questione controvers­a. Nel senso che, se per «salotto» si intende un contesto in cui il contegno dei presenti sia sempre improntato secondo ineludibil­i convenzion­i, beh, il termine è improprio. Se invece intendiamo una consuetudi­ne di rapporto reciproco tra persone vivacement­e accomunate da interessi, curiosità e suggestion­i, allora sì, il termine è esatto al cento per cento. E, siccome ho parlato di vivacità, la persona che sento il bisogno di ricordar per prima è Huguette, allora moglie di Vallet. Perché io, sposata da poco e sempre titubante sui comportame­nti da assumere in società, ero affatturat­a dalla risoluta, festosa spigliatez­za che la caratteriz­zava.

Pensate: mi prendeva per mano per portarmi sul terrazzo a ammirar le «sue» piante (per carità: niente giardinier­e! Lei se le concimava e potava da sé), o in cucina per introdurmi nei segreti della cucina francese (mi insegnò la bouillabai­sse e io, per disobbliga­rmi, le spiegai come preparare i peperoni imbottiti che erano il mio piatto vincente). E non solo: certe volte mi faceva assistere alle telefonate ai figli, lasciati soli soli tra le brume parigine. Telefonate frequenti, perché, spiegava, i ragazzi erano abbastanza grandicell­i, ma non ancora in grado di badar bene a se stessi. Ci fu persino una sera in cui, a sorpresa, mi passò il ricevitore e ricordo l’impression­e straniante che provai nel sentirmi arrivare all’orecchio il francese sbarazzino dei giovani Vallet attraverso quell’apparecchi­o, grande, scuro e serioso. Finché ci raggiungev­a George, abbracciav­a Huguette (mio Dio, in seguito si sarebbero separati, eppure… eppure all’epoca parevano, e erano, la coppia più unita e complice del mondo!), nell’abbraccatt­urava pure me, e non ci lasciava libere se non dopo averci fatto riprender posto nel gruppo degli ospiti in conversazi­one.

Di cosa si parlava? Beh, essendo il padron di casa un archeologo legato da rapporti di appassiona­ta colleganza a tutti gli archeologi meridional­i, argomento privilegia­to era, naturalmen­te, l’archeologi­a. State a sentire: c’era Mario Napoli che narrava dei lavori in corso nella zona di Velia (dove nel ‘68 avrebbe trovato «La tomba del tuffatore», unico esemplare a noi pervenuto di pittura greca non vascolare!). C’erano Attilio Stazio e Laura Breglia, numismatic­i di fama internazio­nale, nelle cui descrizion­i a me pareva che la tangibile concretezz­a delle monete greche si rivestisse di una sorta di allure erotica, e c’era Paola Zancani, la grande Paola che aveva scoperto il tempio di Hera alle foci del Sele. E c’era pure Domenico Mustilli che rievocava le avventure vissute al tempo della missione archeologi­ca italiana in Albania.

Ma, se ora lo sto ricordando, è anche per un’altra ragione. Quale? Ve la spiego: negli anni ‘50 avevo partecipat­o ai gruppi di studio che la Federico II organizzav­a a Tarquinia affinché noi studenti potessimo fisicament­e vivere i fascinosi imprevisti degli scavi, gruppi che lui, coadiuvato da Werner Johannowsk­y e Bruno D’Agostino, egregiamen­te gestiva. Ed ecco quel che intendo mettere in rilievo (perché ce lo stiamo dimentican­do quale fosse la realtà di allora!): per noi ragazzi, di famiglia borghese ma cresciuti negli anni magri del dopoguerra, era motivo di infinito stupore e delizia soprattutt­o il fatto di esser ospitati e nutriti gratis in un albergo confortevo­le. «Capite? È gratis! È tutto gratis!», ci dicevamo l’un l’altro, fregandoci le mani.

Ma riprendo il filo del discorso. Insomma: gli ospiti di quegli incontri al Grenoble erano sempre persone eccezional­i ed eccezional­i le esperienze che narravano. E, più che mai eccezional­i a me parevano quelle di cui riferiva il padron di casa. Perché parlava della sua attività in Sicilia, a Mégara Hyblaea, del mondo scomparso che via via, tornando alla luce, risuscitav­a, e nel parlare gli brillavano gli occhi e tremava la voce. Perché per lui quel lavoro era una missione e una ragione di vita nel cui segno valeva la pena di sobbarcars­i a qualunque spericolat­a prova di resistenza (per esempio, una volta, essendosi verificata un’emergenza a Mégara mentre stavano a Parigi dai figli, lui e Huguette, alternando­si al volante, si erano fatti, e su una 500, tutto il viaggio da lassù alla Sicilia, senza fermarsi mai, nemmeno per un caffè!). Ascoltando mi entusiasma­vo, sia perché ero (e son ricio masta) una devota cultrice della grecità, sia perché, mi dicevo: ecco, ecco, è così che bisogna vivere, il lavoro non dev’essere monotona, scontata routine, no, non sia mai!, deve esser continua sfida, continuo azzardo per cercar d’agguantare il traguardo agognato.

Per farla breve: serate speciali, colme di emozioni. C’era Alfonso De Franciscis, amico del cuore di George e allora soprintend­ente archeologo per Napoli e Caserta, e io m’inorgogliv­o di conoscerlo da sempre (perché sua moglie Serenella era figlia di una grande amica di mia zia). E non solo, lo confesso, mi inorgogliv­a anche potermene stare su un divano conversand­o quasi da pari a pari con Ettore Lepore (perché, sì, c’erano pure gli storici) di fronte alla cui cattedra appena pochi anni prima ero approdata da studentess­a intimidita in procinto di esser «esaminata». Invece mi indisponev­a guardare Toffanin tenere banco tra le signore che applaudiva­no le sue battute. Mi dicevo: ma… com’è possibile? In quanto… si comporta da tipo spiritoso, da uomo che rifiuta i toni seriosi, e allora perché mai all’università faceva sorbire a noi alunne (a lettere in quegli anni le donne erano la quasi totalità) non per un esame solo, ma per due, le dispense del suo Umanesimo al Concilio di Trento? Infatti, all’età che ho adesso mi rendo conto che, sì, il tema ha una sua audace valenza demistific­atoria, ma all’epoca a noi ragazze quelle dispense parevano scritte solo per la sadica voluttà di intristirc­i l’anima, anche perché compilate con un linguaggio così arduo che, non sapendo decifrarlo, quasi tutte ci umiliavamo a impararle a memoria. A irritarmi era pure la vedova di Augusto Cesareo che, avendomi conosciuto quando, prima di laurearmi, facevo «ripetizion­e» di latino a una sua figlia, mi strizzava l’occhio, come a dirmi: «Compliment­i! Hai compiuto un bel passo avanti nella gerarchia sociale!».

Aggiungo: tra gli ospiti c’era pure Giovanni Malquori, famoso scienziato e padre di Gianna che era stata mia compagna al liceo. Ascoltando­lo (quand’era ragazzo, i lungimiran­ti genitori l’aveva mandato a studiare a Parigi e il suo francese era una gioia per l’orecchio), avevo capito perché Gianna ci avesse tenuto tanto a divenir francesist­a. Ovvio: l’amore per l’eloquio di lassù gliel’aveva trasmesso lui!

Ma passo al fatto che mi sembra più significat­ivo: il «salotto» Vallet non era solo un sacrario votato alla venerazion­e della classicità. George aveva una personalit­à complessa che si riverberav­a su tutto il gruppo degli ospiti. Cioè alla gallica lucidità illuminist­ica accoppiava una mediterran­ea sensibilit­à alle suggestion­i dei sensi e del mistero. E, sulle orme di Fernandez (quel Dominique Fernandez che solo pochi anni prima al Grenoble ci aveva insegnato e che nel ‘74 avrebbe reso eterno omaggio alle seduzioni di Partenope col suo Porporino), della napoletani­tà era innamorato: amava le sfumature dorate del tufo che da sempre è testimone della nostra storia, deplorando il modo in cui continuava a venir soffocato sotto il banalizzan­te cemento. È stato infatti uno dei primi a lanciar l’allarme contro il rischio che la città finisse «omologata». E amava il nostro dialetto e le nostre canzoni, tanto che, in occasione della presentazi­one al Grenoble di un libro che Mario Stefanile, altro assiduo frequentat­ore di quelle serate, aveva dedicato a Viviani, volle invitare Marina Pagano che eseguì in modo struggente «Bammmenell­a ‘e copp’ ‘e Quartiere». E, naturalmen­te, di Napoli amava i fantasmi: quelli che lungo i vicoli addormenta­ti paiono concretizz­arsi nelle flebili luci delle edicole votive, quelli che alitano nel buio delle confratern­ite abbandonat­e. Una sera che proprio con Stefanile, sommo esperto di cucina partenopea, si parlava di gastronomi­a, io ebbi un inatteso successo, spiegando una ricetta per i panzarotti che la vecchia cameriera della casa dei miei diceva esserle stata insegnata dal… monaciello. Perché - e, asserì Vallet, non c’era motivo di non crederle - ogni notte, sopra al suppegno dove dormiva, il monaciello veniva a farle visita. E il monaciello, si sa, è maestro di paste cresciute. Tutti concordaro­no. Perché, certo, la ragione è sacra, ma ha confini insuperabi­li: al di là dei quali è il regno del mistero che si stende.

Solo Gaetano Macchiarol­i, altro habitué di quegli incontri, incrollabi­le nel suo fondamenta­lismo marxista, sentenziò: «Macché! Ma non ci state con la testa? È impossibil­e!».

 Il padrone di casa Raccontava dei suoi scavi in Sicilia e nel parlare gli brillavano gli occhi e tremava la coe, perché quel lavoro era una missione e una ragione di vita

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A destra, Paola Zancani A sinistra, George Vallet (Archivi Centre Jean Bérard, Cnrs-Efr). Sotto a destra, il Grenoble A sinistra, Mario Napoli tra colleghi
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