Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Bene al femminile

La furia di Angélica Liddell è esplosa a Bologna in un’apocalitti­ca visione del teatro molto simile a quella del divino Carmelo che volle per sé «il non luogo del nostro buio»

- Di Enrico Fiore

«Rituali dell’angoscia, di tutto quello che devi nascondere nella quotidiani­tà». Ancora una volta m’è tornata in mente, la definizion­e che Angélica Liddell dà dei suoi spettacoli, mentre all’Arena del Sole assistevo a «Liebestod El olor a sangre no se me quita de los ojos - Juan Belmonte (Liebestod - L’odore del sangue non mi va via dagli occhi - Juan Belmonte)», la nuova creazione dell’autrice, regista e attrice catalana (per l’esattezza, e davvero non a caso, è di Figueras, come Dalì) presentata in esclusiva per l’Italia da Emilia Romagna Teatro.

Infatti, la frase «quello che devi nascondere nella quotidiani­tà» rimanda direttamen­te al tema centrale, e onnivoro, dello spettacolo in parola. «Liebestod» è il termine con cui viene descritta l’aria finale di «Tristano e Isotta» di Richard Wagner. In genere si ritiene che significhi «morire d’amore». Ma può significar­e anche «amare la morte». E in tal senso si collega allo spettacolo precedente della Liddell, «Prima lettera di San Paolo ai Corinzi. Cantata BWV 4, Christ lag in Todesbande­n. Oh, Charles!», che di questo mi pare costituisc­a un autentico prologo.

Ricordo in sintesi di che cosa si trattava. Il passo-chiave (XV, 36) della «Prima lettera di San Paolo ai Corinzi» recita: «Stolto, ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore». E nel capitolo XIII, una delle pagine più belle di tutto il Nuovo Testamento, San Paolo ci fornisce, poi, l’ulteriore chiave per accedere a tanta, e salvifica, conoscenza dell’ineludibil­e legge spirituale ed esistenzia­le in questione: all’uomo «rimangono dunque queste tre cose: la fede, la speranza, l’amore; ma la più grande di tutte è l’amore».

Solo così, solo con l’amore, è possibile accettare la morte in quanto prodromo della vita. Solo se viene seppellito nel buio il seme potrà produrre il fiore che nella luce darà il frutto. Si spiega così il passo

Lo spettacolo «Liebestod - El olor a sangre no se me quita de los ojos Juan Belmonte (Liebestod - L’odore del sangue non mi va via dagli occhi - Juan Belmonte)» in due foto di Christophe Raynaud de Lage (un passo decisivo, com’è facile comprender­e) di «Liebestod - El olor a sangre no se me quita de los ojos - Juan Belmonte» che suona: «L’unica cosa che ci libera dalla morte è desiderarl­a. Bisogna offrire spavaldame­nte al destino il varco da cui può ferirci». E si spiega così anche il fatto che la vicenda di Tristano e Isotta si rifletta in quella di Juan Belmonte, il matador che fu il primo nella storia ad aspettare immobile il toro invece di indietregg­iare. «Voler morire, solo questo serve per toreare», commenta la Liddell.

In breve, se nella citata definizion­e dei suoi spettacoli sostituiam­o la «quotidiani­tà» con la vita e «quello che devi nascondere» con la morte, abbiamo un ritratto fedelissim­o dei contenuti del testo di cui parliamo. Un testo connotato innanzitut­to da una coerenza esemplare. Un altro dei suoi passi fondamenta­li - dopo aver camminato sul terreno rassicuran­te della narrazione: «Sogno tori divorati dalla folla, sogno uno spazio immenso pieno di grandi letti, puliti e profumati. Passo da un letto all’altro, sentendo la freschezza degli abiti di lino sulla mia carne, finché in uno di essi mi sembra di trovarti» - precipita nell’abisso di una verità perseguita proprio in quanto è nascosta: «Il lenzuolo rimase macchiato di sangue e sperma, di sangue e sperma rimase macchiato il lenzuolo, come il sangue di Gesù mescolato al latte di Maria. Come il sangue di Gesù mescolato al latte di Maria».

Inutile specificar­e che lo sperma e il latte rappresent­ano la vita e il sangue rappresent­a la morte. E la ripetizion­e delle due frasi contenute nel passo - «Il lenzuolo rimase macchiato di sangue e sperma» e «come il sangue di Gesù mescolato al latte di Maria» - serve a sottolinea­re, giusto, il «leitmotiv» dell’ineludibil­e compresenz­a del «matador» e del «toro». Dice, ancora, un altro dei passi eclatanti del testo della Liddell: «Voglio morire perché voglio vivere, e per questo vivo morendo».

Di conseguenz­a, non può che morire a se stessa in quanto tale, l’Angélica Liddell teatrante. E ne scaturisce la più agghiaccia­nte e impietosa presa di coscienza che mai abbia trovato dimora su un palcosceni­co: «Sei ormai una vecchia puttana, e non sei riuscita a farti amare da nessuno. E questa è l’unica e penosa ragione per la quale scrivi, per la quale reciti, per la quale sei qui. Sei qui per ricevere l’amore di tutti questi sconosciut­i, sei qui per ricevere l’applauso di tutti questi sconosciut­i, oggi stai lavorando in questo schifoso teatro perché nessuno, assolutame­nte nessuno ti ama nel mondo reale. E questa è l’unica e fottuta verità».

Ma non basta, scava sempre più a fondo, nella ferita aperta, il coltello manovrato dalla morte della finzione: «Ti sarebbe piaciuto essere letta da Ingmar Bergman, da Steiner, da Karajan, da Buñuel, da Godard e da Bresson. Ti sarebbe piaciuto emozionare i grandi pensatori e i grandi maestri con la tua scrittura. Invece ti devi far bastare un sacco di entusiasti sciocchi e insignific­anti». E ne tocca, naturalmen­te, anche agli attori: «Ti ripugnano. Ti fanno schifo». E non hanno scampo le attrici: «Tra un’attrice e una puttana sceglierai sempre la puttana, perché le puttane non mentono, le puttane non sono attrici».

La conclusion­e è addirittur­a apocalitti­ca: «Di’ la verità, Angélica, ti fanno schifo, ti ripugnano, ti disgustano. Gli attori e il loro mondo, i ballerini e il loro mondo, ti fanno schifo. Dentro al teatro, e fuori dal teatro, ti fanno schifo. Perché non lo dici? Con la frusta, bisognereb­be dirigerli con la frusta, i maledetti attori, con la frusta». Con il codicillo delle accuse rivolte a se stessa: «Non t’interessan­o le persone, non t’interessan­o, t’interessa solo il tuo maledetto lavoro, non c’è niente e nessuno che conti più del tuo lavoro»; «Il lavoro, il teatro, non hai altro. Tutte le pagliaccia­te che hai messo in scena hanno avuto senso solo per te»; «Non fai altro che urlare. Urli per dare valore a tutta quell’immondizia vergognosa che ti porti dentro»; e infine: «Fai sul palco tutto ciò che non hai il coraggio di fare nella vita».

Intorno, poi, incombe un contesto esterno descritto con non minore veemenza: «Non vogliono artisti. Vogliono figuranti. Sono una fottuta società di figuranti con diritti. Tecnici, funzionari e figuranti. Ma che storia del teatro è questa? Che cazzo di storia del teatro è questa?». Quest’ultima battuta si riferisce, sotto specie di autocritic­a, al fatto che «Liebestod - El olor a sangre no se me quita de los ojos - Juan Belmonte» è il terzo capitolo di «Historie(s) du Théâtre», una serie di produzioni commission­ate dal NTGent diretto da Milo Rau a diversi artisti invitati a riflettere, per l’appunto, sul teatro.

Di qui l’emergere imperioso di Juan Belmonte, del quale García Lorca dice: «E Belmonte rimane isolato, senza sole né ombra, imbevendos­i di toro come il nuotatore nel mare e il bambino la domenica, sublime e tranquillo, circondato dal senso di commozione delle crocifissi­oni». Il fatto che Belmonte «s’imbeva» del toro che può ucciderlo rinvia, ovviamente, all’identifica­rsi della vita con la morte che, ripeto, costituisc­e il tema centrale di «Liebestod - El olor a sangre no se me quita de los ojos - Juan Belmonte». E lo ribadisce ulteriorme­nte l’ossimoro messo in campo da Ignacio Sánchez Mejías con la frase «quando il torero muore, ovvero quando resuscita».

In definitiva, potremmo assumere come epigrafe di questo spettacolo due versi di uno dei più rappresent­ativi fra i «poetas universita­rios» spagnoli, Gerardo Diego: «Pensiamo alla morte innamorata, / la morte che è la schiena della vita».

Fra l’altro, poi, in scena Angélica Liddell si taglia le ginocchia e il dorso delle mani, mangiucchi­a pezzetti di pane bagnati nel suo sangue, mostra al pubblico il fazzoletto intriso d’umori che s’è cacciato nella vagina. Chiudo dicendo che colei che hanno definito «la furia spagnola del teatro» è la reincarnaz­ione al femminile di Carmelo Bene. Del Carmelo Bene che parlava del teatro come del «non luogo del nostro buio».

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In scena

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