Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Eco, il nome dell’arte
Vincenzo Trione cura una monumentale raccolta di saggi del semiologo e romanziere dedicati a problemi di estetica: si tratta di testi dimenticati o poco noti
Più che un libro è un monumento. Più che un monumento è un labirinto. Più che un labirinto è una biblioteca. Cos’è? La raccolta degli scritti
Sull’arte di Umberto Eco curata in modo non pareggiabile da Vincenzo Trione e pubblicata da La nave di Teseo.
Come ci si può perdere in una biblioteca – e, infatti, Guglielmo da Baskerville e Adso da Melk prima di raccapezzarsi si persero nella biblioteca dell’abbazia benedettina de Il
nome della rosa – così il lettore rischia di perdersi nel libro di Eco fatto di mille e mille echi e di una raccolta che mette insieme scritti che vanno dal 1955 al 2016 e che, inevitabilmente, ricopre le varie fasi del pensiero dello studioso che per meglio studiare e dire si fece romanziere, e non solo romanziere. Ma al lettore viene in soccorso non solo la logica aristotelica, confortata dall’empirismo di Ruggiero Bacone, cara a Guglielmo ma anche e soprattutto il saggio introduttivo di Vincenzo Trione che, consapevole del compito, prende per mano il lettore e, insieme, con amore e sapienza lo inizia ai segreti dell’«opera aperta» del Professore e alla sua «idea fissa». Quale? Tutta l’opera di Eco è intessuta di ironia. Infatti, in uno scritto autobiografico è proprio Eco, parlando di sé in terza persona, a dire che «in tutta la sua vita non ha fatto che correre dietro, ossessivamente, a una stessa idea centrale. Salvo che è ancora presto per dire quale sia». E, tuttavia, qui, sulla scorta della lettura di Trione lo diciamo: l’idea fissa di Eco era la facoltà di cogliere l’atto creativo dell’opera d’arte sulla base della «teoria della formatività» che fu del suo maestro Luigi Pareyson. Il tema estetico, infatti, è la nota dominante dell’opera di Umberto Eco, presente fin dalla sua giovinezza con la tesi di laurea
Il problema estetico in San
Tommaso.
Il lettore, che avrà modo di leggere questo «libro involontario» o pagina dopo pagina – son ben mille e passa – o lasciandosi guidare dalla malìa dei titoli, potrà notare che Eco passando dalla filosofia alla letteratura, dallo strutturalismo all’ermeneutica, dal romanzo al giornalismo ha al centro del suo interesse, tanto di studioso quanto di uomo, la relazione tra creazione ed estrinsecazione o, se si vuole, formatività e comunicazione fino a dissolvere la relazione nella «opera come modo di formare». Proprio questo modo di intendere il tema estetico è all’origine della poliedricità di Eco, per cui abbiamo: Eco filosofo, Eco semiologo, Eco avanguardista, Eco romanziere, Eco giornalista, Eco museografo, Eco grafico, Eco disegnatore, Eco vignettista e si potrebbe continuare. Ecco perché Eco, in occasione di una raccolta dei ritratti di Tullio Pericoli dove vi erano anche i ritratti dello stesso Eco, poteva dire: «Mi sento come la Gioconda a cui fosse richiesto di esprimere qualche opinione su Leonardo». Che è qualcosa di più di uno scherzo. Un’altra volta, assecondando il suo modo estetico di raccontare il nome della cosa, Eco lasciò la penna per la matita e disegnò delle vignette per raffigurare la storia delle idee da Aristotele a Nietzsche. Quest’ultimo lo raffigurò così:
Zarathustra alla stazione che dice: «Mi dia un biglietto di andata ed eterno ritorno».
Ma si può scrivere un libro sull’arte, per quanto «involontario», senza considerare Croce? E qui viene il bello. Sì, perché per quanto il professor Eco non fosse un crociano,
"I napoletani stanno combattendo contro la mitologia locale che va da Piedigrotta a De Filippo e parlano un linguaggio da tecnocrati, dicono «operatori della cultura» anziché critici o pittori
non si può nemmeno dire, usando la formula di Gianfranco Contini, che fosse anticrociano. Anzi, da questo punto di vista il testo è sorprendente e ci restituisce un Eco che ricercando la concretezza empirica dell’atto creativo – la formatività – riechegtradizioni gia proprio Croce e dice: «E se per molti di noi si poté parlare di operazione riuscita, questo però non significa che venissero respinti in blocco tutti gli insegnamenti di Croce». Aggiunge: «Ritengo che nel nostro modo di pensare e di porre i problemi, sia pure alla luce delle nuove metodologie, rimanessero acquisiti certi principi che continuavano a caratterizzare la nostra ricerca”. Eco si spinge fino al punto di dire cosa resta in lui di crociano. E non deve essere un caso che quando dice “mi sento come la Gioconda” poi citi proprio Croce del quale, attraverso gli annuali ritratti di Pericoli, sembra prendere progressivamente le fattezze. Ma, forse, sono solo le suggestioni o interpretazioni di un lettore. Consapevole, però, che il filo conduttore dell’opera di Eco – a mo’ di idea fissa – sono le ultime parole latine de Il nome della rosa: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus. Sono questi scritti di Eco solo “nudi nomi” e nulla più? La risposta ce la dà Guglielmo da Baskerville che altri non è che lo stesso Umberto Eco: “Il bene di un libro sta nell’essere letto. Un libro è fatto di segni che parlano di altri segni, i quali a loro volta parlano delle cose. Senza un occhio che lo legga, un libro reca segni che non producono concetti, e quindi è muto”. Se poggiate l’occhio Sull’arte partorirete concetti.